Il confine tra Kobane e Suruc, tra Siria e Turchia, come Gezi Park: ieri le autorità turche hanno mandato i temibili cannoni ad acqua per cacciare i manifestanti che da una settimana presidiano la frontiera per impedire ad Ankara la costruzione (già in atto) del muro in cemento che separi Rojava dal Kurdistan turco.

Idranti, lacrimogeni e proiettili e il bilancio finale è di due morti (tra cui un 17enne) e oltre 80 feriti, 7 gravi. I soldati turchi, raccontano da Kobane, hanno passato il confine con i carri armati: video e foto mostrano la gente scappare, portare via a spalla i feriti, ma continuando a sventolare le bandiere delle Ypg (le Unità di Difesa Popolari) in mezzo al gas dei lacrimogeni.

Da quando la costruzione del muro è iniziata, la comunità si dà il cambio alla frontiera per protestare contro quella che definisce «un’occupazione», una barriera che penetra per 20 metri nel territorio siriano. Diversa la versione turca: «Un gruppo si è avvicinato al confine e ha attaccato con le pietre macchinari, operai e soldati – dice una fonte dell’esercito di Ankara – Sono stati usati lacrimogeni e idranti, ma non proiettili».

Azioni che seguono alle parole di uno scatenato presidente Erdogan sugli obiettivi dell’operazione Scudo dell’Eufrate: i raid sulle Ypg continueranno a meno che non si ritirino verso est. «Dicono che sono tornati indietro, ma noi diciamo no, non è successo – ha detto da Ankara – Non permetteremo che sia creato un corridoio del terrore [riferimento all’unificazione dei cantoni kurdi di Rojava, ndr]».

Così si pone fine a qualche giorno di tregua effettiva, seppure non ufficiale perché aspramente rigettata dal governo turco.

Di pace comunque non si parla né nel nord della Siria né tanto meno nel sud est della Turchia dove il rinnovato conflitto con il Pkk entra nel suo secondo anno. La ripresa del processo di pace chiesta da più attori, a partire dal partito di sinistra Hdp, viene respinta in coro.

Una reazione ovvia in un periodo in cui Erdogan dà fondo a tutte le proprie energie per radicare i sentimenti nazionalisti necessari alle sue mire presidenzialiste. Una mano gliel’ha data il tentato golpe del 15 luglio, dopo il quale ha spazzato via oppositori veri e presunti in una campagna di epurazione senza precedenti (e già pronta all’uso, visti i tempi ristretti con cui ha fatto fuori i vertici dell’esercito e decine di migliaia di dipendenti pubblici e privati).

Ieri una nuova ondata di purghe ha investito il paese: con 109 giornalisti dietro le sbarre, ieri è stato revocato l’accredito ad altri 115 reporter, per un totale di 620 dal 15 luglio. Inoltre altri 50.589 dipendenti dello Stato sono stati licenziati: 28.163 erano impiegati del Ministero dell’Educazione, 2.018 della Salute, 1.519 della presidenza degli Affari Religiosi e 2.346 del Consiglio dell’educazione superiore.

E ancora, 7.699 agenti di polizia, 24 governatori centrali, 323 gendarmi e 2 ufficiali della guardia costiera. Tutti sono accusati di legami con il movimento Hizmet dell’imam Gülen, considerato la mente dietro la creazione dello “Stato parallelo” e l’organizzazione del tentato golpe.

Ma la caccia alle streghe non si ferma al licenziamento: i nomi degli epurati sono stati pubblicati in Gazzetta Ufficiale, esponendoli al pericolo di rappresaglie. Dopotutto squadracce dell’Akp, il partito del presidente, hanno setacciato per settimane le principali città turche alla ricerca di “traditori” da punire.

Ai vertici i toni non sono meno accesi. A colpire chi tradisce sono stato di emergenza e legge anti-terrorismo, quella che almeno a prima vista preoccupa l’Unione Europea. Ieri è stato il presidente del parlamento europeo Schultz, di ritorno da Istanbul, a tirare di nuovo fuori la questione: «Gli incontri sono stati una buona opportunità per tenere una discussione franca e aperta. Ma la natura eccezionale delle misure e dello stato d’emergenza non dovrebbe fallire il test di proporzionalità e stato di diritto. In Europa la democrazia è molto più del semplice voto: pluralismo, stampa vivace, separazione del potere e parlamentari liberi».

Parole simili a quelle dette a Erdogan durante la visita: la Ue ha chiesto di nuovo il cambiamento della legge anti-terrorismo, ma senza apparenti precondizioni. Schultz ha precisato infatti che la previsione di ingresso libero dei cittadini turchi in Europa (parte del pacchetto “emergenza rifugiati” insieme a sei miliardi di euro) non è messa in dubbio.

In realtà lo è: la data entro la quale concludere l’accordo è il primo ottobre, ma le autorità europee e turche sono ancora distanti. Il premier Yildirim non ha aspettato un istante per rispondere: «Abbiamo detto chiaramente alla Ue che nelle condizioni attuali non possiamo modificare le leggi contro il terrorismo. Qualsiasi marcia indietro è fuori questione».