L’11 Aprile 1920 Kazimir Malevich scrive allo storico della letteratura Michail Gersenzon di non volersi più considerare pittore del Suprematismo – il movimento artistico da lui creato nel 1913, precursore dell’astrattismo geometrico in Russia. Dopo essersi impegnato nella pittura post-impressionista per circa un decennio (1904-’12); aver aderito – per sùbito fuoriuscirne – al Futurismo; avere scandalizzato con il Quadrato nero su fondo bianco (1915), ma ancor di più con il Quadrato bianco su fondo bianco (1918); essersi scontrato con Tatlin e aver polemizzato con le scelte del Costruttivismo, Malevich decide di smettere di dipingere. Il suo obiettivo da «viaggiatore solitario» è dedicarsi alla scrittura per penetrare la «religione dello spirito» che il colore in precedenza gli aveva fatto mettere da parte. Dichiara che la sua attrazione per il Mondo religioso è qualcosa che è accaduto inspiegabilmente: «Frequento le chiese, guardo i santi e tutto il mondo spirituale in azione – scrive a Gersenzon – ed ecco che vedo in me, e forse nel mondo intero, che è giunto il momento del mutamento delle religioni». Egli è convinto che nella sfera della religione si possa conseguire la «forma Pura dell’Atto» a patto che questa, come lui ha saputo dimostrare nell’arte, metta da parte il suo finalismo. Intorno agli anni venti, dunque, Malevich sente la necessità, dietro a una sorta di richiamo mistico, di dare fondamenta logiche alla sua pittura (pura) con una copiosa attività filosofica che occupa una parte importantissima della sua biografia. La radicale svolta gli farà dire: «sono passato dall’imperfezione del pennello arruffato alla sottigliezza della penna».

È importante considerare questo aspetto visitando la mostra Malevich alla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo (ancora fino al 17 gennaio), anche se i curatori Evgenija Petrova e Giacinto Di Pietrantonio l’hanno decisamente trascurato per lasciare il posto al confronto tutto stilistico con una serie di artisti a lui contemporanei distribuiti nel percorso cronologico dell’esposizione: Il’ja Repin o Michail Jakovlev per il periodo simbolista, David Burljuk o Natalija Goncharova per quello cubofuturista, Aleksej Pachomovo o Aleksandr Dejneka negli anni del realismo socialista. Non c’è alcun dubbio che gli accostamenti servano e mai come in questo caso questi misurino la distanza siderale che separa Malevich dagli altri pittori russi, distanza che progressivamente aumenta negli anni, ma che non è sufficiente a spiegare la portata della sua rivoluzione estetica. Solo in parte, infatti, la pittura restituisce la radicalità della sua concezione dell’arte. Michail Bachtin che incontra Malevich a Vitebsk dove dal 1919 l’artista dirige la Scuola d’Arte fondata da Chagall, dirà che oltre a essere «un asceta, innamorato delle proprie idee, era intimamente convinto di essere riuscito a penetrare in certe profondità dell’Universo e averle dischiuse».

Ma cos’è che ha compreso così in profondità Malevich? Cos’è che rappresentano le sue opere suprematiste create prima della decisione di dedicarsi alla filosofia e alla scrittura? Se è vero che ancor prima della Rivoluzione di Ottobre il rifiuto della funzionalità dell’arte è una conquista della scuola formalista (Šklovskij, Jakobson, Eichenbaum), l’artista russo giunge a condividerne molte tesi per un percorso – spirituale oltre che artistico – tutto personale. Egli alla pari di Nietzsche comprende che la creazione artistica è un’azione pura che accade nel flusso incessante del divenire – ciò che il filosofo tedesco chiamò «l’eterno ritorno dell’uguale». Anche per Malevich il mondo si presenta sempre soggettivamente trasfigurato: «trasformando il mondo – scrive – io m’incammino verso la mia trasformazione». In questo senso la natura che si offre al nostro sguardo non è mai identica e semplice nella bellezza delle sue forme ma nel ripetersi, diseguale e complessa. In modo analogo l’arte che scaturisce da una «volontà di potenza», determinata da «un’azione fine a se stessa», intuitiva e mai pragmatica, non potrà mai imitare l’oggettualità della natura. Pertanto non è concesso prendere «tutto ciò che palpita e vive per fissarlo sulla tela come gli insetti di una collezione», quindi, asserisce Malevich, guardare la natura per «copiarla è un furto».

La sua concezione del mondo non-oggettivo raggiunge l’estrema sintesi nel Quadrato bianco su fondo bianco. L’opera non è presente in mostra, ma vi rimandano il Quadrato nero su fondo bianco insieme alla Croce nera su fondo bianco e al Cerchio nero su fondo bianco: tutti e tre esposti in orizzontale su una parete, ma nel 1924 alla XIV Biennale di Venezia, per precise disposizioni di Malevich – l’attesta una lettera autografa – le composizioni dovevano essere collocate in verticale, se non si fosse allora deciso di sostituirle con alcuni disegni di architettura. Davanti a esse è chiara la sua volontà: «l’artista deve seminare la pittura in modo che l’oggetto svanisca», ma per far questo «l’arte non deve procedere verso la riduzione o la semplificazione, ma verso la complessità». Il compiersi di questa dissoluzione, quindi, non è la reductio ad unum di tanti artisti della modernità avanguardista, piuttosto è la presa d’atto che la conoscenza della verità che si compie con la volontà creatrice, è un percorso ontologico nel molteplice del mondo che scardina dalle fondamenta convenzioni accademiche e filosofiche di secoli. Non è possibile dilungarci qui sulle considerazioni estetiche malevichiane, perciò rinviamo al recente contributo di Massimo Donà (Teomorfica, 2015) e agli Scritti dell’artista russo, di nuovo editi (Mimesis Edizioni, 2013).

Tornando alla mostra, i materiali selezionati, provenienti tutti dal Museo Russo di Stato di San Pietroburgo, sono un’ottima occasione per misurare l’influente presenza di Malevich, oltre che nella pittura, nel teatro e nell’architettura. In apertura sono esposti i costumi, ricostruiti sulla base dei bozzetti ideati per l’opera Vittoria sul sole (1913), che nel 2013 è stata di nuovo allestita a San Pietroburgo a cura dell’Ermitage e del teatro Mariinkij. Per questo spettacolo Malevich realizzò anche la scenografia, mentre Kruchënych i testi poetici e Matjušin la musica. Come i tre scrissero nel loro manifesto cubofuturista, si doveva «prendere d’assalto la roccaforte della fiacchezza artistica» del teatro russo per rivoluzionarlo. Vittoria sul sole, sintesi di parole, musica e forme in un «inguaggio inintellegibile», lo zaum teorizzato da Kruchënych – scrive Evgenij Kovtun nel catalogo edito da Giunti –, è la prima opera futurista messa in scena dal gruppo e segna una delle esperienze teatrali più importanti nell’ambito delle avanguardie artistiche. Lo stesso grado di sperimentalismo che incontriamo sulla scena lo ritroviamo in architettura con l’invenzione dei planiti: prosecuzione plastica delle immagini suprematiste deformate tridimensionalmente sulla tela.

Come per la pittura, il planita, per Malevich, deve tener conto del peso, della velocità e della direzione del movimento, ma in particolare non deve avere alcuna utilità materiale: «è costruito senza uno scopo preciso, ma il terrestre può sfruttarlo come desidera, secondo le sue necessità». Il modello in gesso di un mastodontico grattacielo, Architekton “Jota” (1923?), ne è un esplicito esempio e fa bella mostra di sé tra i più discreti oggetti malevichiani di design: tazze e teiera in porcellana dalle forme scomposte con sovrapposti i disegni suprematisti di Nikolaj Suetin.

Tra il 1928 e il 1934 Malevich ritorna a dipingere. I suoi soggetti non sono più figure geometriche, ma contadini dai «volti senza volti», immersi in nitidi paesaggi, dai colori vivaci distribuiti a bande che nella «gamma russo-ucraina – come fa notare Jean-Claude Marcadé in catalogo – ricorda quella della tavola pasquale ortodossa». È questa la fase post-suprematista o del Supra-naturalismo. La non-oggettività così intensamente sostenuta negli anni venti non è tradita ma ora si è trasferita in uomini e donne che con le loro pose solenni sembrano volere resistere alla retorica industrialista staliniana che tragicamente opprime il mondo contadino e ignora la natura. Se chiari sono i riferimenti alla tradizione delle icone, ora questi assumono altri significati. Vale al riguardo soffermarsi al termine della mostra davanti all’Autoritratto (1933): Malevich si raffigura come un uomo del Rinascimento ma nulla rimanda alla ritrattistica dell’Umanesimo, piuttosto l’archetipo iconografico di riferimento è la Vergine Odigitria che con la mano destra accenna al Figlio, al Cammino. Anche l’artista si ritrae nello stesso gesto, ma l’angolo del pollice rispetto alle altre dita, come ha notato acutamente Marcadé, suggerisce il profilo di un quadrato. Ha ragione il critico francese, la grandezza di questo autoritratto sta in quel «designare l’Assenza», nel riconoscimento tragico che la vera realtà è senza oggetti: ultimo solitario segno contenuto in una posa dipinta due anni prima della morte a Leningrado.