Un’«operazione win win» per le casse dello Stato. Così Giorgia Meloni ha presentato lo svuotamento della tassa sugli extraprofitti delle banche nella conferenza stampa (di fine/inizio anno). Le sue considerazioni sulla sua eventuale riuscita vanno attentamente valutate perché non tutto è così lineare, tanto meno quando si parla di tassazione degli istituti di credito.

Dopo avere annunciato tra le polemiche interne alla maggioranza la piccola tassa – piccola (2 miliardi di euro) rispetto agli extraprofitti colossali realizzati anche in questo settore – Meloni & Co. hanno trovato la via di fuga. Tramite un emendamento il governo hanno permesso agli istituti di credito di non pagare la tassa, purché avessero destinato un importo due volte e mezzo il suo valore al consolidamento del proprio patrimonio. Cosa regolarmente accaduta: non un solo euro è stato versato per la tassa. Non solo: come ha ricordato la stessa Meloni in conferenza stampa, le banche hanno battuto ogni record in borsa. Lo si capisce: una volta scampato il pericolo, e trovato l’inganno, gli acquisti dei titoli bancari si sono moltiplicati. Gli investitori, infatti, hanno apprezzato il fatto che le banche abbiano rafforzato il loro patrimonio. Dunque, non solo è avvenuta una ricapitalizzazione, ma le stesse banche sono state messe in condizioni ideali per essere premiate dal mercato.

Meloni ha esposto, a una domanda fatta dal nostro giornale, una suggestiva teoria di natura fiscale. Dato che le banche hanno rafforzato i loro patrimoni in maniera ragguardevole, non è escluso che erogheranno più prestiti e poi che aumenteranno i ricavi. Su questi «ricavi» pagheranno più tasse. E le tasse andranno allo Stato. Ovviamente «nel medio-periodo» e non, com’era sembrato in prima istanza, subito. L’equivoco, del resto, lo aveva creato la presidente del consiglio in persona con un annuncio-spot dopo il quale ha dovuto cercare di correre ai ripari.

Ebbene, tutto questo scenario è valido solo in astratto perché nulla garantisce il governo sull’effettivo reimpiego dei patrimoni rafforzati nella direzione auspicata da Meloni. In primo luogo perché le condizioni macro-economiche non promettono molto bene. Basti pensare alla situazione dei mutui: il mercato si è rapidamente ristretto a causa dell’aumento dei tassi di interesse deciso dalla Banca Centrale Europea per domare l’inflazione. Ciò impedisce agli istituti di credito di trovare le condizioni favorevoli per erogare i mutui il cui costo è aumentato rapidamente senza che i salari li abbiano seguiti in maniera altrettanto celere. In secondo luogo, non è detto che in presenza di un rafforzamento del capitale le banche decidano automaticamente di allargare le loro attività secondo la direzione auspicata dal governo. Sono pur sempre imprese del credito che decidono dove, come e quando investirlo.

Questi elementi impediscono di tracciare, con la sicurezza mostrata da Meloni, l’esistenza di un circolo virtuoso tra maggiori accantonamenti e maggiori imposte. Tuttavia, al momento resta certo un fatto: propagandando un effetto positivo remoto, il governo ha nascosto un regalo fatto alle banche in maniera inaspettata. Che si aggiunge agli extraprofitti realizzati grazie alla politica della Bce: nei primi nove mesi del 2023 i cinque gruppi più grandi in Italia hanno realizzato profitti per 15,7 miliardi, quanto in tutto il 2019 e più del 2018 (15,1 miliardi).

Non c’è dubbio che per loro sia stata un’«operazione win win»