La logica del «tre» impregna di sé molti e diversi fenomeni del multiverso culturale. Dalla religione cristiana alla numerologia pura, dalla cabala alla musicologia, in cui il «tre» delle figurazioni ritmiche ternarie è sia sinonimo di balli borghesi poi diventati, tout court, ballo liscio, sia cellula ritmica nel gran alveo afroamericano, generatore di quel «tresillo», o «dos tres» che innerva pressoché tutta la musica di rilievo a Sud degli Stati Uniti.

Tre è il numero che ha guidato, come un riferimento prezioso e tutto da indagare, l’opera di un giovane musicologo italiano che ha preso di petto la storia, anzi, le storie (al plurale: sennò che tre sarebbe?) sottese al grande racconto di Bella Ciao.

La canzone che risuona in ogni occasione importante in cui ci sia in gioco qualche minaccia alla libertà, per la gioia solidale di chi da quella canzone si sente protetto, per lo sconforto e il disprezzo di chi non vuole proprio fare i conti con il discrimine tra antifascismo e tetra nostalgia del tempo dell’«armiamoci e partite».

Il musicologo è Jacopo Tomatis, già autore, tra l’altro, di un’imponente Storia culturale della canzone italiana.

Perché il tre governa Bella Ciao, edito da Il Saggiatore? Perché Bella Ciao, racconta Tomatis con dovizia di fonti, acribia nella ricerca e penna assai sciolta, è assieme tre cose, che compaiono nel sottotitolo, inframmezzato ai sei «fiori del partigiano», i papaveri che attraversano le lettere del titolo, e poi una serie di multipli a catena che ne amplificano di continuo portata e presenza.

Tant’è che a gennaio 2024, siamo a 99 versioni, bel multiplo del 3. Bella Ciao è una canzone partigiana di area appenninica, figlia di un canto popolare conosciuto come «il fior di tomba», e ben noto come canto delle mondine, lampante esercizio del principio di articolazione delle note di cui ha scritto Richard Middleton, come succedeva col «contrafactum» medievale. È stato uno spettacolo dirompente che ha ribaltato gli imbolsiti assetti di una musica «popolare» sino a quel momento (il 1964) vissuta come campanilismo beota o roba da etnomusicologi fissati, con il Nuovo Canzoniere Italiano sul palco del Festival di Spoleto.

È infine un disco a 33 giri del 1965 che ne seguiva le piste. Il disco lo vedete come dono tra le mani di Enrico Berlinguer e quelle di Ho Chi Minh, presidente del Vietnam del Nord, dicembre 1966, la prima foto davvero «storica» che apre la preziosa successione iconografica del volume. Bella Ciao, come non l’avete mai sentita, letta e studiata.