Che cos’è l’Amazzonia? È il fiume mondo, il Rio delle Amazzoni, il «fiume aorta», sono le città coloniali, Manaus, Belém, Santarém, le «barche fuga», le «barche bordello»? Forse quello che troviamo nei Tristi Tropici di Lévi-Strauss o nelle canzoni di Caetano Veloso, Chico Barque, i riverberi di luce. Sono questo e molto di più, un cosmo complesso di popoli, lingue, paesaggi, riti sciamanici, e forme di resistenze di uno degli ultimi mondi naturali del pianeta, attaccato dalle invasioni barbariche della modernità e da quello che Davi Kopenawa, il capo spirituale degli Yanomami, chiama «popolo delle merci».

L’IMMAGINARIO FLUIDO di questa terra magica, incantata, muove anche la scrittura ondivaga di un libro recente, In Amazzonia (Giulio Perrone editore, pp. 144, euro 16) di Daniele Petruccioli, viaggiatore, traduttore e scrittore di romanzi come La casa delle madri (Terra Rossa, 2020). Il suo viaggio di viaggi per frammenti e temi, fatto di una scrittura confidenziale, diaristica, che ibrida narrazione tout court e riflessione letteraria, si compie in Brasile attraverso alcuni libri guida, soprattutto di Mario De Andrade (il suo Turista apprendista molto citato) e Milton Hatoun, si apre con la citazione di un articolo di Antonio Tabucchi apparso sul Corriere della Sera, «Amazzonia di carta», proprio sul rapporto tra l’identità dei luoghi, la loro forza d’immaginazione creativa e la produzione di «parole, canzoni, storie», ma anche con un viaggio fatto negli anni giovani con la sua compagna Flora, che periodicamente riaffiora nei ricordi.
Petruccioli mescola con sapienza memoria romanzesca e sequenze di libri, saggi a reportage di viaggio vissuti on the road su lance lungo i fiumi cercando di cogliere il conio profondo di una geografia complessa e sfuggente, piena di spaesamenti e ribaltamenti dello sguardo. Perché, come scrive, «l’Amazzonia vera non sta mai dove chi non l’ha capita prova ad esibirla. Forse per questo, a volte, la trovi prima meglio sulla carta. Nell’immaginario che si fa parola».

L’AMAZZONIA è metamorfica come il suo paesaggio tortuoso, come i «capillari acquatici» degli immensi bracci di fiume e dei tanti affluenti del Rio, una selva oscura che si nasconde alla vista, trasfigurata nell’immaginazione in un mondo magico impenetrabile. Il libro è diviso in brevi capitoli-argomenti dove questo grande immaginario diventa paesaggio urbano e naturale, moltitudine e vita collettiva di una terra liquida, riti, commerci nei mercati all’aperto. Vita che si svolge nelle case «inabitabili», perché a «trentacinque gradi all’ombra e col cento per cento di umidità le case stanno fuori, naturalmente», l’idea di casa è invece il più delle volte nell’amaca, «te la porti lungo il fiume, anzi lungo i mille fiumi, affluenti, canali, igarapé».
Poi in questa terra arcaica ci sono i moli e i pontili, i flutuantes, o ancora i porti galleggianti di Manaus, invece che le barche, «la possibilità di muoversi, di andare, di sfuggire alle siderali solitudini dell’equatore», un mezzo che per l’autore «è un pensiero, un’ala, un volo». Come le canoe di Macunaìma di De Andrade o le barche di Due fratelli di Hatoum. E anche le grandi strade come la Transamazzonica o Br-230, che durante la costruzione sterminò quasi del tutto il popolo indigeno dei Waimiri Atroari (i popoli indigeni però sono poco raccontati in questo libro), o i fiumi che diventano strade.
Ma il grande immaginario della foresta pluviale, i suoi miti della creazione e le culture animistiche sono anche popolati di animali nell’isola di Marajò invece che a Belém, il rapporto ancora ancestrale tra uomini e mondo animale, con un continuo scambio di ruolo, alla «umanizzazione delle bestie sacrificate corrisponde la bestialità degli uomini», come nel romanzo Ceneri del nord di Hatoum.

ANCHE LE PIANTE sono storia ed economia dell’Amazzonia brasiliana attraversata da Petruccioli, l’epoca del caucciù e l’invenzione di Goodyear del 1839, la corsa all’estrazione del lattice bianco che diede vita all’Eldorado di Manaus nello stato di Amazonas e al mito cinematografico di Fitzcarraldo, il capolavoro di Herzog.
Ma in questo «rigoglio amazzonico», ci avverte l’autore, «c’è una sorta di destino di marcescenza», e «a guardare bene ogni cosa si vede sempre un po’ il suo opposto», un contrasto molto forte come il simbolo della morte «per eccesso di vita», sempre di un libro di De Andrade, Victoria amazonica. E poi c’è il mistero delle favole, il realismo magico che tesse in quei mondi lontani mito e realtà, favole che s’intrecciano alla vita «intatte nel loro mistero».