“Sono caduta in un pozzo profondissimo, mi chiedo se ci sia uscita. Ma non ho dubbi su quale sia la parte giusta della storia”.

Inizia così la lettera che Ilaria Salis ha scritto dal carcere di Budapest nel quale è detenuta da più di un anno. È lì da febbraio dell’anno scorso sulla base di un’assurda custodia cautelare che è di per sé stessa una condanna già inflittale senza che ci siano prove della sua colpevolezza.

Giovedì 28 marzo è tornata in tribunale tenuta al guinzaglio, di nuovo con le catene ai polsi e alle caviglie; catene della vergogna di chi le mette, non di chi le porta; tutto come a fine gennaio. Un’immagine indecorosa che la dice lunga sullo stato dei diritti civili nel paese governato da Orbán dal 2010. Ossia da un sistema per il quale, evidentemente, la giustizia non è strumento di ricomposizione sociale e di riparazione, ma piuttosto di afflizione. Uno strumento avente funzione punitiva con una serie di riti macabri che pare siano la prassi nel paese; catene alle mani e ai piedi, guinzagli che contribuiscono al degrado personale offerto al pubblico come monito e motivo di soddisfazione: vedete? Giustizia è fatta!

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Ma se questa barbarie è una consuetudine in terra danubiana, nel caso della Salis acquisisce una connotazione particolare; Roberto Salis afferma che la figlia sta subendo un trattamento di questo genere perché donna, non ungherese e antifascista. Concentriamoci sul secondo punto; non è ungherese; sembra che ci sia un doppio messaggio da parte del governo Orbán, uno rivolto ai connazionali del premier: avete visto? Così vengono puniti e neutralizzati coloro i quali violano il territorio ungherese e mettono in pericolo la sicurezza nazionale; un altro destinato al governo italiano e comunque alla comunità internazionale: l’Ungheria esercita sul suo territorio il diritto di amministrare la giustizia e la politica secondo i suoi schemi e non tollera alcuna intromissione proveniente dall’esterno.

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Una prova muscolare, insomma. Così quelle catene sono certo la vergogna di un sistema e di un teorema inaccettabili, applicati sulla pelle di una persona titolare di diritti, primo fra i quali quello al rispetto dovuto all’individuo, ma pesano anche sul governo italiano e sulla sua incapacità di farsi valere.

Così Ilaria, in catene, ha visto negata la richiesta di arresti domiciliari; in fondo questa decisione era nell’aria. Tragicamente ridicole le motivazioni dell’accusa che ha presentato questa lunga detenzione come possibilità per l’imputata di riflettere sulla gravità del reato commesso, oltre che mezzo per evitare la fuga e reiterazione di un illecito del quale non ci sono prove a carico della giovane.

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Ilaria sente di essere precipitata in fondo a un posso profondissimo, ed è il pozzo nel quale sono precipitati i diritti civili violati dal governo Orbán e non adeguatamente difesi, in questo caso, dall’esecutivo italiano.

Se possiamo tirare un sospiro di sollievo per Gabriele Marchesi non possiamo abbassare la guardia rispetto a quanto sta accedendo a Budapest.

Ilaria non deve essere abbandonata e deve tornare in Italia.