«L’unica passione della mia vita è stata la paura»: salve le distinzioni fra caratteri tanto diversi, queste parole di Thomas Hobbes molto amate da Barthes potrebbero valere a maggior ragione per Elias Canetti, che per tutta la sua lunga vita – coronata dal Nobel nel 1981 – affiancò alle opere narrative, saggistiche, teatrali e autobiografiche il cantiere insonne degli Appunti. Ne pubblicò solo una piccola frazione (accolta in due corposi tomi delle sue opere complete) dopo avere scelto tra i testi più taglienti. Il resto delle note e dei diari rimane, tuttora inedito e in parte secretato per disposizione testamentaria dell’autore fino al 2024, nel lascito conservato a Zurigo.
Più che un’opera di ripiego sostitutiva della continuazione del suo primo romanzo Auto da fé (vale a dire il progettato ciclo di una «Comédie humaine dei folli») l’insieme di queste Aufzeichnungen appare ormai come l’ombra, brulicante di possibilità, che torreggia su un’idea irrealizzata di compimento: quell’opera magna che Canetti alla fine, pur rimuginandovi sopra tutta la vita, si negò, o non riuscì a portare a termine.

Come se il sentiero laterale potesse divenire strada maestra, ogni tanto è affiorata in alcuni biografi la tentazione di considerare proprio gli aforismi e gli appunti come il nocciolo attorno al qualepotrebbe disporsi tutta la geografia dell’opera di Canetti, dominata dall’esordio superlativo, profetico, irripetuto del 1935 e da un ricco e strano oggetto di pensiero nato da una gestazione pluridecennale: quella indagine maestosa quanto sfuggente, quella audace anatomia della paura intitolata Massa e potere.
La scrittura desultoria di note e appunti data già molto in alto nell’esistenza di Canetti, almeno dal 1925. Ma fu l’anno 1942 a rivelarsi decisivo: l’Europa era nel pieno della guerra, e già da quasi tre anni lo scrittore, nato in Bulgaria da famiglia di ascendenza sefardita, dopo l’Anschluss era passato da Vienna in Inghilterra con la moglie Veza. Come lui stesso dichiarò introducendo la sua prima scelta di appunti – La provincia dell’uomo – l’enorme lavoro di documentazione per Massa e potere a quel tempo lo assorbiva in maniera pressoché esclusiva, forzandolo a proibirsi qualunque diversione in altre scritture. Di quegli anni tragici, Canetti dirà di essere «grato di averli vissuti da sveglio»; e anche per questo, oppresso dal dovere di continuare quella che sarebbe divenuta l’opera della sua vita, non riuscì infine a impedirsi la «valvola di sfogo» rappresentata dalla stesura regolare degli aforismi, scintillanti di quella voluta spontaneità e mancanza di responsabilità che non poteva permettersi nell’elaborazione sistematica, benché singolarissima, del saggio.
Il 24 ottobre del 1942 consegnò una scelta di pensieri, quale regalo di compleanno, alla pittrice Marie-Louise von Motesiczky, forse già allora sua amante. Il taccuino manoscritto ritrovato fra le carte dell’artista ci fa conoscere centoventinove lampi del suo pensiero quasi tutti ignoti finora: uscì nel 2005 a cura di Jeremy Adler e lo pubblica ora in italiano Adelphi titolandolo Aforismi per Marie-Louise (traduzione di Ada Vigliani, con una interessante postfazione dello stesso curatore, pp. 101, euro 12,00). È una testimonianza germinale della ricerca di Canetti sulla forma breve e lampeggiante dell’aforisma, proiettata verso sviluppi futuri memorabili, ma anche il documento di un’amicizia amorosa destinata a durare fino alla morte dello scrittore, sebbene affievolita e complicata dalle molte delusioni sofferte soprattutto da Marie-Louise.

Lei, alta, di non comune bellezza, facoltosa e legata da stretta parentela a famiglie ebraiche molto in vista, ospitò la biblioteca di Canetti in casa sua, strinse amicizia con sua moglie (che tollerava la relazione) e gli mise a disposizione una stanza in cui lavorare tranquillo; lui, che soffriva il fatto di essere basso di statura e si sentiva brutto, la incoraggiava a dipingere, portava l’aria del milieu letterario mitteleuropeo in quel «deserto» che Londra rappresentò per i due esuli e le confidava per lettera pensieri e ambizioni, nonché i conflitti con altri intellettuali (come Broch e Adorno) rivendicando di aver compiuto con Massa e potere una ricerca personale fondata su connessioni completamente autonome: ben altro, insistete stizzito, che scodellare un «libro di sociologia» di quelli pronti a vellicare ambizioni accademiche invece di rispondere a una pura necessità di conoscenza.

Di fronte all’aforisma Canetti si dispone come uno che pretenda di avanzare a tentoni nel buio sorridendo. Affrancatosi dalla dittatura spirituale fatta di collere e condanne del suo maestro Karl Kraus, che lo aveva esaltato negli anni della giovinezza viennese (e la cui «scuola di resistenza» aveva sottoposto a una prova incessante il suo spirito di venerazione), Canetti in questi testi ritrovati dialoga con Pascal e Lichtenberg, maestri del pensare breve in cui la ricchezza dell’annotazione scritta vince ogni aspettativa sistematica; guarda a Confucio e al Talmud; riposiziona i confini della sapienza greca («L’uomo è la misura di tutti gli animali»); costruisce alcuni aforismi secondo la logica del paradosso arguto tipica dei moralisti classici («Cercò di restare ragionevole all’inferno», o ancora: «Sentimentalismo è quando la bontà diventa corruttibile»); capovolge con sarcasmo proverbi e modi di dire, ma coglie e prefigura i propri risultati più originali quando si allontana da una chiarezza concettuale in cui tutto torna e tenta invece di sfruttare la pienezza ambivalente della metafora, convinto com’è che spiegare non è conoscere, se «il conquistatore non trova più la via d’uscita dalla carta geografica» e «il sagace lo rosicchiano le tarme».

Già è sintomatico che alla allure classica delle parole «aforisma» o «massima» preferisca opporre lo statuto fluido, disponibile e polimorfo dell’«appunto». Questo gli concede l’illusione preliminare di non sorvegliarsi, di non essere costretto a rileggersi salvo a distanza di anni, e di potere davvero gettare sui quaderni, in una sua personale stenografia, il minimo guizzo che gli attraversa la mente, perché «tutto sta nel rapporto tra il riso e la meraviglia». La potenza fantastica, il bizzarro connubio dell’elementare con l’inaudito, la freschezza nell’escogitare immagini nuove, a rischio del grottesco, animano le punte più vitali di questo libretto: Canetti inventa forme di vita immaginarie, pensando al contrario fino a sfiorare il mito («Ogni due o tre anni ha una nuova madre, a ciascuna delle quali vuole un bene da morire. Adesso è un ottuagenario e la sua ultima madre ha appena compiuto vent’anni»).

Pur cosciente delle proprie radici ebraiche, vorrebbe fare un’esperienza vergine della Bibbia, ex abrupto, come se non l’avesse mai letta, per «giungere alle conclusioni più ardite». La presenza concreta della storia, che negli aforismi pubblicati in vita è a volte mascherata sotto lo smalto fantastico o il tono di una formulazione più generale, qui è invece urgente: il Canetti del 1942 sta tarando lo strumento stilistico dei suoi appunti, è ancora curioso del comunismo, allude alla guerra come chi abbia avuto nell’orecchio il rumore delle esplosioni. E quando scrive «l’uomo non ha diritto a una vita privata», dietro il morso satirico si intravedono le giornate dell’esule sbalzato in camere d’affitto, diviso tra le lingue, sempre a corto di soldi. Il filo rosso sono le ossessioni di un’intera esistenza: la morte (il progetto a un tempo più audace e naturale di Canetti è stato farsi «nemico della morte»), la sopravvivenza e il suo legame perverso e inscindibile con il potere. Poi gli idoli del tempo, da abbattere: il fastidio per Nietzsche, cui dedica un’ora di lettura «estorta» e piena di ostilità, l’opposizione irrevocabile a Freud. Se pure c’è una qualche tensione alla «verità», essa è febbrile, non pacificata («una verità si pianta sempre nel tallone dell’altra»); la riflessione si lega immediatamente all’immagine ma dimora in quell’ambivalenza radicata nella doppia faccia del linguaggio: «Non mente, sorride».

Per Canetti lo scrittore è il «custode della metamorfosi» e dei miti dell’umanità che deve essere in grado di «diventare chiunque» e incarnare le molte figure di cui è composto. Un Io frantumato ma tendente a una coerenza segreta ed estrema, sintonizzato non solo sulle voci della propria epoca, per coglierne l’essenziale e opporvisi, come Kraus, ma in grado anche di parlare dei morti, per i morti, la cui presenza invade ogni spazio.

E però, volgendo Canetti contro sé stesso, si direbbe che ogni appello preventivo alla spontaneità sia sospetto, sia un modo di nascondersi. Nella orgogliosa molteplicità delle sue metamorfosi, nel suo sorprendersi (nella sua volontà di sorprendersi) di fronte a quell’altro sé che è la frase, sono in agguato sia l’autofustigatore assetato di autodenigrazione (infatti il pronome «egli» non è mai neutro nei suoi appunti) sia il veneratore di idoli bramoso di gloria, ma pronto a provocarli, a rovesciarli, ad assolversi solo per poi presentarsi più raffinatamente ferito.

«La prima cosa che bisogna comprendere nella vita di un grande scrittore è il genere e il grado di solitudine che è riuscito a conquistare per sé stesso», dirà nel ’48 nella conferenza su Proust, Kafka, Joyce, scrittori che hanno intrecciato rifiuto, reclusione, esilio e metamorfosi, e ai quali si sforzava di guardare da pari. Da qualche parte nell’incompiuto, nel polverìo di voci delle Aufzeichnungen, traspare il segreto di un Canetti collezionista di immagini riflesse nell’acqua, segreto tanto pulsante quanto più nascosto. «Di stelle ce ne sono molte, e potrebbero essercene ancora di più. Ci inviano una luce, e noi sappiamo di non potergliene restituire nessuna». Forse mai Canetti è stato più vicino alla sua epoca come quando è sembrato che volesse distogliersene: stava allontanandosene, in realtà, per prendere le misure.