Il padre di Tuncay Sidali, uno dei 301 operai morti nella strage di Soma, seduto davanti alla piccola casa del figlio nel villaggio di Kinik, parla sottovoce con lo sguardo basso: “Mi diceva spesso che le condizioni di lavoro erano durissime, ai limiti del sopportabile. Noi gli abbiamo più volte detto di lasciare il lavoro, di non scendere più in miniera, ma cos’altro poteva fare, rubare? – si chiede l’uomo con la nipotina sulle ginocchia – Aveva due figlie da mantenere, un affitto da pagare. Prima vivevamo in un paese vicino, facevamo i contadini, ma i soldi non bastavano mai e abbiamo deciso di venire qui, non avevamo alternative. Guadagnava 1500 lire al mese (500 euro) Tuncay, racconta il padre, uno stipendio modesto che scendeva a poco più di 1000 se non lavorava 30 giorni al mese come richiesto dalla direzione della miniera: “se un giorno non vai a lavorare perdi la paga di due” spiega l’uomo.

Tuncay, come molti degli altri suoi compagni, è stato ucciso dal monossido di carbonio prodotto dal carbone che, secondo quanto emerge dalle testimonianze raccolte nel corso delle indagini, da giorni si faceva sempre più caldo, un segnale evidente del rischio di una violenta esplosione che i padroni della Soma Holding, l’azienda che gestisce la miniera per conto dello stato turco hanno deciso di ignorare.

“Lavoro nella miniera da due anni e mezzo e periodicamente il carbone si faceva rovente com’è successo anche 20 giorni prima del massacro” conferma Ahmet Mutluer, che è scampato alla tragedia per un soffio. Il suo turno sarebbe dovuto iniziare mezz’ora dopo l’esplosione. La sua foto, con il viso ricoperto di carbone e le lacrime agli occhi pubblicata dai principali media turchi nei giorni successivi alla strage è diventata un simbolo della determinazione dei minatori sopravvissuti nell’aiutare i soccorritori ad estrarre vivi i colleghi rimasti intrappolati. Mutluer è stato tra i primi a entrare per cercare di salvare i suoi compagni, ma ha trovato la maggior parte di loro già morti: “C’erano cadaveri di persone che hanno perso la vita mentre pregavano, altri erano abbracciati –racconta – Quando li ho visti mi sono sentito male. All’uscita ho provato un dolore indicibile. C’era una gran folla e i familiari dei minatori, mi sono chiesto come avrebbero fatto a sopportare quello che era successo e gli ho dovuto dire che là sotto non ero riuscito a trovare la maggior parte dei miei amici”.

Secondo gli investigatori che hanno sequestrato i computer dell’azienda, i sensori presenti nella miniera avevano registrato già diverse volte, nei due giorni precedenti l’esplosione, un pericoloso aumento (+50%) della quantità di monossido di carbonio nell’aria, probabilmente dovuto all’autocombustione del carbone. Il blocco immediato delle attività della miniera avrebbe salvato la vita dei miniatori, ma i responsabili dell’azienda, che non hanno annotato sui registri ufficiali l’aumento, hanno deciso di ignorare l’importante segnale.”

“Appena dopo l’incendio siamo riusciti a estrarre i corpi dei morti solo dalla galleria principale, dopo quattro giorni sono tornato e ci siamo spinti, più in profondità, fino all’area dove era scoppiato l’incendio – racconta Sami Yavuz, che nella miniera di Soma lavora da 10 anni – là abbiamo trovato centinaia di cadaveri, erano completamente sfigurati dalle fiamme, ho trovato un mio amico, ma sono riuscito a riconoscerlo a fatica. Eravamo più di 1500 metri sottoterra e per estrarre tutti quei corpi li abbiamo caricati uno ad uno sul rullo trasportatore della miniera”.

“Era da 15 giorni che nella miniera si faceva sempre più caldo, c’era fumo che usciva dappertutto, lo abbiamo fatto presente ai nostri superiori, ma loro dicevano che non c’era alcun pericolo, di continuare a lavorare – racconta Yavuz – se ci avessero ascoltato questa tragedia non sarebbe successa”.

Una strage annunciata di cui i vertici della Soma Holding, secondo sindacati e minatori, sono i principali responsabili. Spetterà, tuttavia, ai 29 magistrati incaricati dall’Alto consiglio dei giudici e i pubblici ministero (Hysk), il Csm turco, stabilire una volta per tutte le cause dell’incendio e individuare eventuali negligenze nell’applicazione delle norme sulla sicurezza. Intanto il 19 maggio sono scattate le manette per otto dirigenti dell’azienda accusati di omicidio tra cui l’amministratore delegato Can Gurkan, il direttore generale Ramazan Dogru e il direttore operativo Akin Celik.

“Abbiamo investito tutto il nostro capitale in questo lavoro – ha dichiarato durante l’interrogatorio Can Gurkan, che gestiva la miniera per conto del padre: “Abbiamo dato da mangiare a sei mila e 400 persone. Siamo noi le principali vittime dell’incidente. Abbiamo investito tutto quello che avevamo a disposizione nelle misure di sicurezza e data la necessaria formazione a tutti i lavoratori, i superiori e gli ingegneri.”

Non la pensa allo stesso modo il procuratore capo di Akhisar Bekir Sahiner che il 18 maggio, in una conferenza stampa, ha spiegato che secondo il primo rapporto dei periti da lui incaricati la combustione del carbone era già iniziata nei giorni precedenti il disastro, causando il crollo del soffitto in una parte della miniera, all’origine dell’incendio e lo sprigionamento di gas tossici. Dei 787 minatori che si trovavano nella miniera alle 13.10, poco prima del cambio turno, solo 468, i più vicini all’entrata, si sono salvati, mentre 301 hanno perso la vita.

Secondo Can Gurkan, l’incendio non sarebbe stato dovuto al riscaldamento del carbone: “penso che si sia trattato di un sabotaggio” ha detto il dirigente che ha pregato il giudice di non disporre il suo arresto per permettergli di “lavorare per le famiglie delle vittime”: “Non ho nessuna colpa per quello che è successo – ha detto Gurkan che ha puntato invece il dito contro il direttore Ramazan Dogru – anzi le mie responsabilità sono aumentate devo dare sicurezza economica ai miei lavoratori e alle famiglie delle vittime.

Non c’è negozio, ufficio pubblico, strada o piazza di Soma che non sia listato lutto. Striscioni e manifesti neri con messaggi di cordoglio per la morte dei minatori sono ovunque, ma quella del 13 maggio, non è la prima tragedia che ha colpito la cittadina dove su 105 mila abitanti, 15 mila sono minatori. Dodici lavoratori sono morti in incidenti simili negli ultimi due anni nella miniera della strage. L’ultimo di una lunga serie di incendi, sempre dovuti al riscaldamento del carbone, ha ucciso un minatore il primo ottobre dell’anno scorso.

Tre giorni dopo la tragedia, i vertici della Soma Holding sono apparsi per la prima volta davanti alle telecamere per dare la loro versione dell’accaduto. “Non c’è stata nessuna negligenza da parte nostra. Ho lavorato nelle miniere per 20 anni e non ho mai visto un incidente simile – ha dichiarato il responsabile organizzazione dell’azienda Akin Celik. Nel corso dell’animata conferenza stampa, a cui ha partecipato anche un gruppo di minatori dallo sguardo severo con indosso l’elmetto giallo, Alp Gurkan, il padrone della Soma Holding, non è stato in grado di fornire informazioni chiare sulle cause dell’esplosione. Si è detto, inoltre, intenzionato a riprendere la produzione dopo i controlli del caso.

La tensione è salita alle stelle dopo che più volte dirigenti dell’azienda hanno dato risposte elusive ai giornalisti che li interrogavano sulla presenza o meno di camere di sicurezza, aree con bombole d’ossigeno e riserve di cibo dove i minatori possono rifugiarsi sopravvivendo per giorni, obbligatorie in molti paesi. “Non era presente una camera di sicurezza nella miniera – è stato costretto ad ammettere alla fine il direttore del settore minerario Ramazan Dogru che ha spiegato, tuttavia, come fosse in corso la costruzione di una struttura di questo tipo. “Se questo incidente fosse avvenuto tra tre o quattro mesi, queste persone si sarebbero salvate per la presenza di una camera di sicurezza” ha dichiarato Gurkan.

Parole in netta contraddizione con quelle pronunciate solo due anni fa in un’intervista pubblicata dal quotidiano economico Dunya. Allora Gurkan aveva parlato della sua miniera come una delle più sicure del paese: “Sono presenti diverse camere di sicurezza collegate con l’esterno per l’approvvigionamento di ossigeno dove almeno 500 lavoratori possono sopravvivere per almeno 20 giorni – aveva assicurato Gurkan – ‘Teniamo costantemente sotto controllo la miniera di Soma a rischio esplosione a causa del metano”, dichiarazioni poi palesemente smentite dai fatti nelle giornate successive. E pensare che, secondo le stime dei media turchi sarebbero bastati 5 milioni di dollari per mettere a norma la miniera, spiccioli rispetto ai profitti annuali dell’azienda.

Secondo quanto emerso durante le operazioni di soccorso era presente una sola area dove i minatori potevano scappare, l’infermeria, priva, tra l’altro, di bombole di ossigeno visto che 14 lavoratori che vi si erano rifugiati, sono morti dopo aver usato a turno le poche maschere che avevano a disposizione. “Avevamo maschere ad ossigeno, ma molte non funzionavano o erano difettose – racconta Sami Yavuz –anche se avessero funzionato non avrebbero salvato la vita dei minatori visto che hanno un’autonomia di 30-40 minuti e come fai in mezz’ora a fare più di un chilometro e mezzo in un tunnel pieno di fumo e gas tossici?”

L’obiettivo della direzione era risparmiare su tutto, compresa la sicurezza dei lavoratori, riducendo il costo di produzione del carbone per massimizzare il più possibile i profitti, secondo Yavuz: “Se avessero avuto un posto dove scappare, i miei amici non sarebbero morti, è stato questo il più grande errore della direzione. Il fumo li ha soffocati mentre cercavano di correre fuori, questo è omicidio, nient’altro che un omicidio. L’unica cosa a cui pensavano era riempirsi il portafoglio il più possibile riducendo i costi di produzione del carbone in ogni modo possibile, delle conseguenze che questo avrebbe avuto su di noi non gli interessava nulla”.

Che la politica aziendale fosse produrre sempre più carbone a costi il più possibile ridotti, d’altronde Gurkan, l’aveva ammesso più volte. Da quando la miniera è passata in gestione dalla Impianti carbone Turchia (Tki), il colosso minerario controllato dallo stato, alla Soma Holding nel 2009 il costo di estrazione è passato da 130-140 dollari a 23,8 a tonnellata rivendicava con orgoglio lo stesso Gurkan nel 2003 in un intervista grazie all’introduzione in miniera “dell’organizzazione del lavoro del settore privato”. Una politica aziendale, contestata con forza ora dai minatori, che dopo la strage hanno più volte manifestato nel centro di Soma per chiedere al governo, oltre alla messa in sicurezza della miniera, la sua nazionalizzazione

“Sono cose che possono capitare – ha dichiarato, invece il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan nei giorni successivi alla strage al termine di un sopralluogo alla miniera – nella letteratura esiste un fatto definito incidente sul lavoro, è nella natura delle cose. Non è possibile che non avvengano mai incidenti.” Una visita, in una cittadina completamente militarizzata per il suo arrivo, segnata da violente contestazioni da parte di cittadini e famigliari delle vittime. Al termine della conferenza stampa mentre Erdogan si dirigeva verso la sua auto, circa 200 persone che urlavano “primo ministro dimettiti” sono state bloccate dalla polizia che due giorni dopo non ha esitato a fare uso di getti di acqua urticante, proiettili di gomma lanciati ad altezza d’uomo e gas lacrimogeni per disperdere il corteo di protesta diretto verso la prefettura della cittadina. Costretto rifugiarsi in un negozio per alcuni minuti per evitare il contatto con un gruppo di cittadini infuriati Erdogan è riuscito ad allontanarsi solo dopo che le guardie del corpo hanno rimosso la targa speciale usata per le auto-blu dei membri del governo.

Contestazioni che hanno fatto andare tutte le furie il premier che durante la sua visita a Soma è stato filmato mentre, circondato dalle sue guardie del corpo, minacciava un manifestante: “Se provi ad inveire contro il Primo ministro di questo Paese, sarai preso a schiaffi” urla Erdogan nel video all’uomo mentre i bodyguard gli fanno strada tra la folla inferocita. Mentre il premier si è limitato alle minacce uno dei suoi consiglieri Yusuf Yerkel, invece, costretto poi alle dimissioni, era passato dalle parole ai fatti prendendo a calci un contestatore bloccato a terra da uomini delle Forze dell’ordine.

La foto dell’aggressione è finita sulle pagine dei giornali di tutto il mondo e condivisa da centinaia di migliaia di persone sui social network tuttavia il portavoce del Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) del premier Huseyin Celik, ha difeso Erel, parlando di legittima difesa: “Non è possibile capire come sono andate veramente le cose da una fotografia Erel ha detto che la persona che ha preso a calci l’aveva attaccato, insultandolo” ha dichiarato il parlamentare che ha criticato duramente opposizione e sindacati che sono scesi in piazza per protestare dopo la morte dei miniatori, colpevoli secondo lui “di strumentalizzare una disgrazia nazionale a fini politici”.

Lo scontro politico seguito alla strage di Soma ha contagiato anche lo stesso governo. Il primo a sciogliere le fila è stato il ministro del lavoro Faruk Celik. Al centro delle critiche dell’opposizione per non essersi recato subito a Soma per seguire i soccorsi, ha scaricato tutta la responsabilità dell’accaduto sul ministro dell’Energia Taner Yildiz: “Se c’è una responsabilità politica, allora dobbiamo sederci e discutere di chi è – ha dichiarato in un intervista pubblicata sul quotidiano Cumhurriyet, l’organo del principale movimento d’opposizione, il Partito repubblicano del popolo (Chp) – le miniere non sono di mia competenza. Il nostro ministero è solo incaricato dei controlli. Le miniere, i permessi e il loro funzionamento sono legati al ministero dell’Energia”. “E’ in corso una campagna per stabilire che c’è un buono e un cattivo” ha aggiunto il ministro che teme di essere indicato come capro espiatorio per la strage. Celik, che ha anche proposto di chiudere tutte le miniere in Turchia come fatto in passato da Francia e Germania, ha dichiarato anche di essere pronto a dimettersi nel caso emergano responsabilità del suo ministero.

Dichiarazioni che hanno molto irritato Yildiz che ha invitato Celik ad assumersi le sue responsabilità. Secondo il ministro dell’Energia: “I colpevoli della strage non sono solo i responsabili (dell’azienda), ma anche del ministero dell’Energia e quello del Lavoro. La responsabilità sia umana che legale non è di una sola persona”. Un approccio, quello adottato da Celik, criticato anche dal premier Erdogan, che secondo le indiscrezioni pubblicate riportate dal quotidiano Hurriyet avrebbe criticato il ministro per non aver reso pubblico da subito di essere malato, creando “incomprensioni” sulla sua visita tardiva a Soma.

Yildiz, durante una visita a Soma di qualche mese prima aveva lodato le misure di sicurezza e l’alto livello di sviluppo tecnologico della miniera, ma la settimana ha fatto marcia indietro parlando di negligenze innegabili nella gestione della miniera escludendo il paragone tra quanto accaduto a Soma e un disastro naturale.

Arrivato a Soma per portare solidarietà alle vittime, Erkan Akcay, parlamentare del Partito di azione nazionalista (Mhp), all’opposizione non ha dubbi, i responsabili della tragedia non sono solo i dirigenti dell’azienda che gestisce la miniera, ma anche il governo che doveva vigilare sull’applicazione delle norme sulla sicurezza: “E’ chiaro a tutti che si tratta di un omicidio, ora dobbiamo trovare il colpevole, sono membro della commissione d’inchiesta istituita dal parlamento per indagare sull’accaduto, tutti stanno cercando di scaricare su altri le responsabilità della strage, non possiamo permetterlo. Il premier ha detto che le miniere funzionano come quelle francesi e tedesche a fine ottocento ed è naturale che anche nel nostro paese ci siano incidenti simili – aggiunto Akcay – La responsabilità di quest’incidente è anche del governo che ha promosso privatizzazioni, dato in gestione le miniere ai privati e permesso l’uso sfrenato di contratti in subappalto, condizioni che hanno reso gli incidenti inevitabili”.

Secondo Akcay il governo ha sempre ignorato le richieste dell’opposizione che denunciava da tempo come le miniere del paese fossero ad alto rischio: “anche gli organi dello stato incaricati di vigilare sull’applicazione delle norme di sicurezza nelle miniere che dipendono dal governo sono responsabili e devono rendere conto delle loro inadempienze”.

I rischi per la sicurezza della miniera erano stati denunciati anche dal Chp, che venti giorni prima dell’esplosione aveva presentato una mozione per chiedere un’indagine parlamentare respinta dopo il voto contrario dell’Akp di Erdogan. In parlamento il firmatario della mozione Ozgur Ozel aveva parlato dei frequenti incidenti in miniera invitando il parlamento a intervenire con urgenza.

Ibrahim Salgin, morto in miniera a 38 anni, era conscio da tempo di stare rischiando la vita racconta la moglie Aynur: “mi aveva raccontato che da 20 giorni faceva un caldo incredibile nell’area dove lavorava. Prima gli lavavo l’uniforme solo una volta a settimana negli ultimi tempi, lo facevo una volta al giorno per via del sudore. Era chiaro che sarebbe successo qualcosa di brutto, ma il padrone non è voluto intervenire e quindi è successo quello che è successo. Ibrahim mi aveva detto che aveva paura di morire, ma non c’erano alternative doveva continuare a lavorare e ora è morto e sono rimasta sola con tre figlie da accudire. Sono 432 i bambini rimasti orfani del padre, ha reso noto il ministro per la famiglia e le politiche sociali Aysenur Islam, di cui si occuperà l’Afad, la protezione civile turca e il ministero della Sanità.

Quello di Soma in Turchia, tuttavia, non è un caso isolato, ha evidenziato la presidente della Camera degli ingegneri minerari di Istanbul Nedret Durukan. Secondo l’esperta l’unico obiettivo delle privatizzazioni e dalla cessione in subappalto delle miniere promossa dal governo negli ultimi anni è stato massimizzare i profitti riducendo i costi: “se privatizzi allora devi avere un meccanismo di ispezioni efficiente, la maggior parte degli incidenti avviene in inverno. Perché? Perché (in quel periodo) la domanda cresce”. In Turchia, tuttavia, gli esperti che fanno la valutazione dei rischi, redigono i piani d’emergenza e organizzano i corsi sulla sicurezza, sono pagati dall’azienda: “Come fai a contraddire il datore di lavoro che ti paga il salario? La legge va cambiata per proteggere gli esperti e perché possano anche imporre sanzioni”.

“L’ultimo controllo del ministero del Lavoro è stata una farsa – racconta Yavuz – come le altre volte il padrone sapeva da tempo che gli ispettori sarebbero arrivati, ci ha detto di non lavorare fino a quando se ne sarebbero andati. Hanno fatto un rapido giro nella galleria principale senza però scendere nei cunicoli più profondi o nei tunnel laterali”.

Le precarie condizioni di sicurezza rappresentano un problema endemico secondo il Centro di ricerca turco sulle politiche economiche (Tepav) che in un rapporto, pubblicato nel 2010 ha denunciato come la Turchia sia il paese al mondo con più minatori morti in rapporto alla quantità di carbone prodotto. Un tasso di incidenti maggiore rispetto a quello di Cina e Stati uniti, i due principali paesi estrattori.

Dal 1941 ad oggi sono stati oltre tremila i lavoratori morti nelle miniere turche e 100 mila i feriti. L’incidente più sanguinoso prima della strage di Soma ha colpito la miniera di Zonguldak, cittadina sul Mar Nero, dove nel 1992 un’esplosione ha ucciso 263 minatori. Secondo l’Istituto nazionale di statistica turco (Tik) è proprio nel settore minerario che, l’anno scorso, sono state registrate il maggior numero di morti bianche, il 10% del totale. Un dato che fa del minatore il lavoro più a rischio in Turchia.

Secondo i partiti d’opposizione e i sindacati turchi sarebbero state le privatizzazioni degli ultimi anni e il sistema adottato dal governo per la cessione ai privati delle miniere la principale causa dell’aumento degli incidenti. Il 56% delle miniere in Turchia, infatti, sono di proprietà pubblica, ma gestite da aziende private che sono tenute a versare una percentuale dei profitti allo Stato, rodovans in turco. In questo modo sia lo stato che l’azienda guadagnano di più se il carbone viene prodotto a costi inferiori a scapito, però, della sicurezza, dicono i lavoratori, visto che anche lo stato, che dovrebbe controllare l’applicazione delle norme, ha tutto l’interesse a massimizzare i guadagni.

Una corsa al profitto che ha spinto le aziende gestrici ad affidarsi a compagnie terze per ridurre ancor di più i costi di produzione denuncia Rustem Acerce, un impiegato della Impianti carbone Turchia di Soma candidato alle elezioni sindacali per minoranza interna della principale confederazione turca, la Turk-Is: “In teoria i subappalti sarebbero proibiti, ma per trovare più in fretta persone disposte a lavorare in miniera il datore di lavoro si rivolge a caporali che gli procurano manodopera a basso costo in cambio di un incarico ben pagato in azienda. Sulla carta i lavoratori vengono assunti direttamente, ma dipendono nei fatti da chi gli ha procurato il lavoro che viene ricompensato dall’azienda con uno stipendio che gli viene versato senza che lavori realmente.”

Nessuna norma per rendere il lavoro in miniera più sicuro, tuttavia, è stata mai approvata in Turchia. Un paese che tra l’altro non ha mai firmato la Convezione sulla sicurezza e la salute nelle miniere dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo). Un documento, ratificato da 28 paesi, che contiene norme per prevenire morti e infortuni sul lavoro e i danni all’ambiente provocati dalle miniere. Secondo la confederazione Turk-is il governo si è sempre rifiutato di aderire alla Convenzione, nonostante le pressioni del sindacato, per non scontentare le aziende.

Una situazione ad alto rischio come denunciato, anche, in un rapporto, pubblicato tre anni fa, dall’Organismo di verifica della presidenza della Repubblica (Ddk) dove si chiedeva al ministero del Lavoro di promuovere norme urgenti per rendere più sicuro il settore minerario. Non c’è coordinamento tra i diversi organismi incaricati di verificare l’applicazione delle regole sulla sicurezza, i programmi educativi per i lavoratori scarsissimi e le direttive europee non applicate secondo il Ddk. Un grido d’allarme rimasto tragicamente inascoltato.

La notizia di un’indagine su due ispettori che avevano espresso una valutazione “estremamente positiva” prima del disastro dopo un controllo alla miniera di Soma, ha fatto emergere nuovi dubbi sull’indipendenza e l’efficienza delle verifiche sulla sicurezza. L’inchiesta è partita dopo che i giornalisti del quotidiano Hurriyet hanno scoperto che l’ispettore del lavoro Emin Gumus che ha ispezionato la miniera di Soma il 13, il 14, il 17 e il 18 marzo, è sposato con la sorella di uno dei manager dell’azienda Hayri Kebapcilar, responsabile del settore progettazione. “Nessuna irregolarità era stata individuata durante il controllo” recita il rapporto redatto da Gumus solo un mese prima del massacro. I giornalisti di Hurriyet hanno scoperto, inoltre, che anche altri due ispettori che avrebbero dovuto svolgere indagini indipendenti sono sposati, si tratta di Alpaslan Erturk, uno dei primi esperti ad avere accesso agli scavi per conto del pubblico ministero che sta conducendo le indagini sull’incendio e la moglie Aysel incaricata dal ministero stero del lavoro di verificare le condizioni di lavoro di lavoro nella miniera.

In Turchia, in linea con l’approccio ultra-liberista del governo Erdogan, la crescita economica non ha portato con sé un miglioramento delle condizioni di lavoro. Il salario minimo, poco più di 1000 lire turche (300 euro circa) è molto al di sotto delle costo della vita, denuncia la Confederazione dei sindacati dei lavoratori progressisti (Disk), le morti sul lavoro un problema endemico, iscriversi a un sindacato ha spesso come conseguenza diretta il licenziamento e esistono “liste nere” di persone sindacalizzate redatte dalle aziende che non vengono più assunte nel caso cerchino un altro lavoro.

Nella miniera di Soma, dove la maggior parte dei lavoratori erano iscritti alla Turk-Is, i lavoratori erano costretti a votare i candidati vicini alla direzione denuncia Rustem Acerce: “ai minatori davano una lista con i nomi dei candidati da votare, se si rifiutavano la pena era il licenziamento immediato”. Una pratica antidemocratica che il sindacato dei minatori Maden-Is, legato alla Turk-is, ha sempre tollerato, scatenando dopo la tragedia la rabbia dei lavoratori della Soma che nel corso delle proteste, il 28 maggio, hanno tentato di occupare la sede del sindacato nel centro della cittadina chiedendo le dimissioni dei vertici della Maden-Is, arrivate poche ore dopo.

All’incrocio tra la strada statale che collega la cittadina a Pergamo e la via che porta alla miniera, nonostante la strage che ha ucciso i minatori di Soma, alle tre, l’ora del cambio turno, i pullman carichi di lavoratori diretti nelle decine di miniere ancora attive nella zona, passano uno dopo l’altro senza soluzione di continuità. La produzione non si ferma. Burak che lavora da due anni alla Imbat Madencilik, a una manciata di metri dal luogo della strage, è fatalista: “passato quache mese cambierà il padrone, gli operai scenderanno a scavare e tutto tornerà come prima” dice prima di salire sull’autobus che che lo porta al lavoro. Mentre indica dal finestrino la miniera di Soma, coperta dalla polvere sollevata dal pullman, smette di parlare per un attimo per riprendere qualche secondo dopo: “Rispetto alla nostra, la miniera di Soma era persino più sicura, fare il minatore, per lo meno in questo paese è duro, sai che ogni giorno rischi la vita, ma non hai nessuna alternativa, quindi preferisci pensare ad altro, affidarti al destino”.