Kathrin Schmidt è stata l’ultima capomissione della Iuventa, prima del sequestro della nave. Da quel 2 agosto 2017 a ieri ha vissuto sapendo che sarebbe potuta finire in carcere, fino a 20 anni, insieme agli altri tre membri dell’equipaggio imputati. Venerdì ha percorso le scale del tribunale a testa alta, è entrata in aula con la maglietta «no one is free until every one is free», è uscita con gli occhi rossi e gonfi di lacrime. «Ma provo soprattutto rabbia, tutto questo non sarebbe mai dovuto cominciare», dice.

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Come sta?

Domanda difficile (ride, ndr). Mi sento travolta. Mi sto rendendo conto solo ora quanto mi è costato tutto questo negli ultimi anni. Ma sono soprattutto arrabbiata. Molto arrabbiata. Tutto ciò che abbiamo subito non era necessario, è stato un processo politico che non sarebbe mai dovuto cominciare. Quello che hanno fatto è semplicemente al di là di qualsiasi cosa.

Cosa ha pensato quando ha saputo che la accusavano di essere d’accordo con i trafficanti?

All’inizio ridevo. È durante il sequestro della nave che ci siamo resi conto che era stata superata ogni linea. In quel momento non eravamo accusati solo di collusioni con i trafficanti, ma anche di avere armi da fuoco illegali a bordo. Vi rendete conto? Hanno perquisito la Iuventa da cima a fondo cercando armi da fuoco! Era tutto assurdo. Non potevo crederci, perciò ridevo. Ma ho riso solo fino a quando ho capito che facevano sul serio, erano dannatamente seri. Anche se le accuse erano lontanissime dalla realtà, non si trattava di uno scherzo.

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Come le ha cambiato la vita questa inchiesta?

Ovviamente in modo profondo. Perché la repressione ha il suo prezzo, ed è alto. Ovunque, per chiunque. Capisci che quello che ti sta succedendo è fuori dal tuo controllo, al di là del tuo consenso. Ho dovuto accettarlo e prendermi le mie responsabilità. Così ho deciso che andava trasformato in una sfida. Il processo doveva diventare un palcoscenico politico, uno strumento di lotta per diffondere la consapevolezza di come le migrazioni sono criminalizzate in modo sistematico, di quello che viene fatto contro le persone in movimento.

Le sue prime parole dopo la sentenza di proscioglimento non sono state né per se stessa né per i suoi compagni. Ha invece ricordato i migranti morti o arrestati per aver attraversato delle frontiere. Perché?

Perché è di questo che si tratta. L’obiettivo di ogni criminalizzazione e repressione legata al regime dei confini, la violenza delle frontiere e tutto ciò che ostacola il soccorso in mare è in definitiva diretto contro le persone in movimento. È loro che l’Europa vuole bloccare. È loro che l’Europa uccide ogni giorno. È di queste persone che bisogna parlare. È queste persone che bisogna ascoltare. Vogliono condannarle all’invisibilità e all’illegalità. Ma hanno voce, anche se non la sentiamo abbastanza. È più facile celebrare i soccorritori da eroi. Tanti parlano di come siamo stati criminalizzati noi, ma non è questo il problema principale. Ci sono migliaia di persone che sono già in prigione per gli attraversamenti di frontiera. Io non ho trascorso neanche un giorno dietro le sbarre. Eppure ho avuto tanta gente che ha ascoltato la mia storia, che l’ha raccontata. Ma pochissimi sentono le storie che importano davvero. I problemi peggiori non li vivono i soccorritori, che godono del privilegio bianco, ma le persone in movimento che sono descritte come pericolose, come criminali, per giustificare le violazioni dei loro diritti umani.

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E ora? La Iuventa tornerà in mare?

La Iuventa è diventata un ammasso di ferro. La guardia costiera, che aveva la nave in custodia durante il sequestro, non ha adempiuto al dovere di mantenerla nello stato in cui l’ha ricevuta. Il giudice ha stabilito che la Iuventa deve essere riportata in quella condizione ma, a essere sinceri, non sono sicura che ciò sia possibile. Al momento è distrutta.