Preso nel significato più corrivo, il titolo della mostra, allestita dall’ottobre di questo anno negli spazi espositivi della Fondation Louis Vuitton, sembrerebbe fatto più per respingere che per attirare. Chi leggesse, infatti, Icônes de l’Art moderne, non potrebbe impedirsi, in un primo momento, di pensare a una noiosa parata di alti ufficiali dello Stato maggiore dell’arte, da salutare con una levata di cappello, deferente e meccanica. Il famosissimo dipinto di Gauguin, Aha oè feii (Sei forse geloso?), che campeggia in locandina non ci smentirebbe, saremmo anzi già mossi a dire: «ti conosco mascherina!». Poi però il sottotitolo fa chiarezza: si tratta, non già d’un prontuario dell’arte moderna, ma di una imponente parte (130 opere su 275) della collezione che il mecenate russo Sergueï Chtchoukine raccolse al palazzo Troubetskoï tra il 1898 e il 1914. Si tratta inoltre sì di icone ma nel duplice significato: quello che l’uso comune vi attribuisce e quello religioso, slavo e bizantino.
L’incontro con Paul Durand-Ruel
Sergueï Chtchoukine era un mercante che discendeva da mercanti: i Chtchoukine erano Vecchi credenti, istallatisi a Mosca per commerciare nell’industria tessile. Sergueï viaggia per lavoro e rende spesso visita al fratello Ivan, il quale conduceva a Parigi la vita di un uomo colto e privilegiato, frequentava cioè i salotti e ne aveva uno proprio. Nel 1898 nella capitale francese Chtchoukine incontra Paul Durand-Ruel, il mercante degli impressionisti, dal quale acquista il primo nucleo della sua collezione: un paio di Pissarro, qualche Renoir, un Sisley, Monet soprattutto. Malgrado comperi anche opere di artisti minori, come quelle di Gaston La Touche, pittore perituro come quelle luminarie che tanto volentieri scelse a soggetto dei suoi quadri, il primo nucleo di questa collezione è eminentemente moderno. Poi, tra il 1902 e il 1904, la raccolta si estende, accogliendo dipinti di Degas, di Signac, di Cézanne, oltre a un gran numero di opere di Gauguin. Due anni dopo Chtchoukine visita lo studio di Matisse, per il cui tramite, di lì a poco, farà la conoscenza di Picasso. Dell’uno adunerà trentotto opere, cinquanta dell’altro. Nel 1918, insomma, anno del decreto con il quale la collezione venne nazionalizzata, al palazzo Troubetskoï era rappresentato nella sua integrità l’anello che congiunge impressionismo, post-impressionismo e avanguardie.
Se si volesse percorrere questa mostra con lo sguardo di uno storico dell’arte, si vedrebbero perciò certe discendenze che la critica ha sovente spiegato nei termini preziosamente esoterici dell’analisi formale, incarnate visibilmente nelle affinità di strutture compositive e di soggetto da una tela all’altra. Chi potrebbe dubitare, ad esempio, dei debiti che Picasso e Braque contrassero con Cézanne, vedendo la Casetta in giardino (1911), il Castello di La Roche-Guyon (1909) e la Montagna del Sainte-Victoire vista dai Lauves (1905) accosti nella medesima stanza, elaborazioni distinte di un motivo assai simile? Pure taluni sviluppi individuali dell’arte di singoli pittori, potrebbero ammirarsi in queste sale con una chiarezza che non ha eguali, come appunto si osservano, nella terza sala, le dense lacche della Colazione sull’erba di Monet (1866) dissolversi nella vaporosità diffusa della Scogliera a Étretat (1886) o dei Gabbiani sopra il Palazzo del Parlamento di Londra (1904).
Ma le collezioni private mostrano sovente qualcosa di più di una mera perspicacia critica, di una pur incantevole sicurezza di gusto: mostrano certe particolari affinità spirituali fra i quadri, certi significati inattesi, scaturiti dalla loro inedita combinazione, come accade alle carte nel gioco dei tarocchi. Così vediamo, nella seconda sala, le figure assorte del Povero pescatore (schizzo) di Puvis de Chavannes (1879) chiarire la loro natura spirituale nella Visitazione di Denis (1894), dov’è lo sviluppo di una medesima sintassi di sinuose forme staccate. E, seppure il quadro che gli è esposto accanto, Il mercato (1893) di Brangwyn, incantevole pomario di dolci e densi granati di colore, sia di soggetto esotico, spirituale è il tema dell’opera seguente: un arazzo di Burne-Jones. Si tratta dell’Adorazione dei Magi (1886), Magi ai quali il pittore vittoriano ha voluto, in verità, prestare dei tratti che si converrebbero più a dei penitenti Tannhäuser che non a degli austeri sacerdoti d’oriente. Quel che più conta, in tali accostamenti, è come queste forme, che preludono alla flessuosa movenza degli elementi decorativi nell’Art Nouveau, si associno spesso alla ritualità religiosa in un’equivalenza quasi di pattern e trascendenza.
Una congiuntura 1906-’07
È un filo che corre per tutta la mostra; un filo rosso, come il melagrano, come la mistica rosa. Dalla brochure ricevuta all’ingresso apprendiamo che «Chtchoukine acquistò un insieme di sedici tele di Gauguin (undici delle quali sono riunite nell’esposizione). Queste tele appartengono per i loro motivi all’iconografia cristiana: Natività (Bé Bé), la Vergine e il bambino (Maternità. Donne sul bordo del mare), Annunciazione (Ruperupe e Te avae no Maria), Fuga in Egitto (Il guado)» e che «il termine iconostasi precocemente adottato dai commentatori della collezione per descrivere il monumentale muro di pitture riunite da Chtchoukine per la sala da pranzo del palazzo Troubetskoï, rinvia alla disposizione dell’architettura ortodossa». Di tali acquisti La contadina (1908) e La contadina in piedi dello stesso anno sono quasi il complemento. È in queste due opere, infatti, che Picasso assimilò alla modernità i principi estetici dell’icona bizantina che egli aveva potuto studiare in occasione della grande esposizione sull’arte russa svoltasi a Parigi fra il 1906 e il 1907. Giunti in Russia, i dipinti furono fonte di ispirazione per artisti come, Malevich, Larionov, Goncharova, Popova e Rodchenko.
La storia dell’arte è fatta di congiunture: si può provare a immaginare quale sarebbe stata l’evoluzione delle avanguardie russe se il grande pittore spagnolo non avesse riavvicinato questi artisti alle matrici iconiche del loro paese, un po’ al modo con il quale, mezzo secolo prima, il realismo europeo, innestando nel vecchio tronco del romanzo nuove problematiche di ordine sociale ed etico, aveva mosso Tolstoj e Dostoevskij a riscoprire le radici dello spiritualismo slavo. Forse la collezione Chtchoukine appartiene a quel genere di dettagli capaci di mutare il corso della storia, come Pascal diceva del naso di Cleopatra. Ed è questa l’impressione che si ha percorrendo le ultime sale della mostra, dedicate al confronto fra le avanguardie russe e i loro modelli europei, ove si vedono esposti, accanto ai due quadri di Picasso, alcune «icone» di Malevich, come la Donna col rastrello (1932), la Contadina con secchi e bambino (1912) e il celebre Quadrato nero su sfondo bianco (1929). Tutti gli artisti russi avevano, d’altra parte, la possibilità di ammirare le opere d’arte raccolte dal mecenate ogni domenica, allorché le sale del palazzo Troubetskoï venivano aperte al pubblico moscovita.
Florenskij, i saggi sull’icona
Il catalogo, molto ben curato, propone un inventario generale dell’intera collezione, assieme a una lauta messe d’informazioni storiche e fotografie, a un prezzo non moderato. In alternativa è possibile comperare uno snello album con una selezione delle opere esposte, impiegando gli spiccioli risparmiati per procurarsi il vecchio saggio di Florenskij, Le porte regali. Saggi sull’icona, che Adelphi, con la consueta valenza, ha più volte ristampato.