Cinque anni dopo l’uccisione, compiuta da un commando dei Navy Seal, del suo leader e fondatore Osama bin Laden, colto di sorpresa nel suo rifugio fortificato di Abbottabad (Pakistan) – questa è la versione ufficiale –, e a due anni dalla proclamazione del “Califfato” da parte dei rivali dello Stato Islamico (Isis) in ampie porzioni dell’Iraq e della Siria, al Qaeda resta una organizzazione attiva e diffusa, anche se ha subito battute d’arresto e ha visto numerosi dei suoi esponenti uccisi o catturati. Gli attacchi in Europa e in Africa, la sua forza in Yemen e Siria, confermano che l’organizzazione, capace nel 2001 di infliggere gli attacchi più gravi mai avvenuti sul suolo degli Stati Uniti, conserva intatta la sua pericolosità pur avendo perduto, a vantaggio dell’Isis, la capacità di attirare nuovi militanti.

Il ramo yemenita, al Qaeda nella Penisola Arabica (Aqap, con decine di migliaia di combattenti), nato nel gennaio 2009, è senza dubbio il più solido di tutta l’organizzazione. Aqap ha saputo sfruttare il conflitto tra il governo yemenita e i ribelli sciiti Houthi per espandere il suo controllo nel sud del paese. Guidato da Qassem al Rimi, il ramo yemenita nel gennaio del 2015 ha anche rivendicato l’attacco contro il settimanale satirico francese Charlie Hebdo. L’altro braccio forte di al Qaeda, il Fronte al Nusra (7-8000 uomini), comandato da Abu Mohammad al Jolani, opera in Siria. Assieme ad altre formazioni jihadiste controlla porzioni importanti del territorio siriano: la provincia di Idlib, alcuni rioni di Aleppo e importanti aree nel sud della Siria e a ridosso del Golan occupato da Israele. Ben armato, composto da uomini addestrati e pronti alla sacrificare la vita, il Fronte al Nusra rappresenta una minaccia concreta per l’esercito siriano. Il primo problema per al Qaeda in Siria è la rivalità con l’Isis, sfociata spesso in scontri armati. Non è da escludere però che la necessità di contrastare meglio l’offensiva governativa di terra e quella aerea della Russia e della Coalizione guidata dagli Usa, convinca le due parti stringere un’alleanza militare.

Molto attiva è anche al Qaeda nel Maghreb Islamico (Aqim), fondata nel 2007, quando il Gruppo salafita algerino per la Predicazione e il Combattimento proclamò la sua fedeltà a Osama bin Laden. Aqim ha attirato combattenti da tutta la regione del Sahara, creato basi nel nord del Mali, stabilito reti di traffico di droga e sequestrato occidentali (alcuni dei quali poi giustiziati). Dopo l’intervento francese in Mali, Aqim ha ristabilito le sue roccaforti nel sud della Libia, non mancando di rivendicare attacchi in Algeria, Burkina Faso, Costa d’Avorio e ancora nel Mali. Due anni, al Qaeda ha annunciato la nascita di un ramo asiatico, Al Qaeda nel subcontinente indiano (Aqis), che, oltre ad avere le storiche roccaforti in Afghanistan e Pakistan, opera in India, Bangladesh e Myanmar. La sua forza è stimata intorno ai 600 uomini ma può contare sull’appoggio di gruppi con migliaia di combattenti, come i Taleban afghani e pakistani. Fedele ad al Qaeda resta inoltre il violento gruppo somalo Shebab. Cacciato da Mogadiscio nel 2011 rimane però una minaccia costante, anche in Kenya dove compie attacchi regolari.

Al Qaeda perciò mantiene una rete ampia cinque anni dopo l’uccisione di Osama Bin Laden. Il suo punto debole è il vertice dell’organizzazione, incapace di opporre efficaci politiche di reclutamento all’appeal dell’Isis sui giovani musulmani convertiti al salafismo in Occidente e Asia. I jihadisti stranieri si sono uniti in massa ai ranghi dello Stato Islamico in Iraq e Siria snobbando in buona parte quelli di al Qaeda. Il medico egiziano Ayman al Zawahiri, che ha preso il posto di Osama bin Laden nel giugno 2011, resta un ideologo salafita di primissimo piano che, prima con la lotta al comunismo sovietico e poi agli Stati Uniti, ha inscritto il jihad in una prospettiva escatologica globale. Allo stesso tempo al Zawahiri non possiede le doti di leader del “califfo” dell’Isis Abu Bakr al Baghdadi.
Mentre due anni fa il successore di bin Laden rivolgeva i suoi appelli all’ummah islamica e minacce al resto del mondo registrando occasionali messaggi video e audio nel suo rifugio segreto, al Baghdadi ha prima preso le distanze da al Qaeda e poi è passato all’azione cancellando in un solo colpo i confini coloniali tracciati dall’Accordo Sykes-Picot e proclamando subito il “Califfato” che al Zawahiri riteneva prematuro. Al Baghdadi e i suoi uomini hanno usato, con abilità, le nuove tecnologie della comunicazione mettendo in piedi una temibile macchina da guerra mediatica. E hanno anche saputo intercettare le generose “donazioni” dei ricchi wahabiti del Golfo interessati più a conseguire obiettivi immediati – come la caduta del nemico Bashar Assad in Siria e la fine del potere sciita in tutto l’Iraq – che a rimanere ancorati alla realizzazione sul lungo (a dir poco) periodo dei “disegni divini” ai quali fa sempre riferimento al Zawahiri.