È probabile che l’unico futuro di cui valga la pena parlare è l’essere postumi. Se non altro perché in qualche caso – come il Caso Orson Welles – l’essere ammette senza più dubbi l’essenzialità del non essere. Essenziale per poter essere sempre in troppi e di troppo a se stessi, per sapersi indefinitamente rilanciato e rilanciabile.

Il fatto è che Too Much Johnson non prende neppure in considerazione la possibilità di essere unfinished, neppure come sostituto cubista di quinta teatrale. Al di là della trama o dei finali più o meno aperti, è compiutissimo il tramarsi interno, assoluto anche nelle singole ripetizioni di ciak, concluso anche come sogno di future illimitate versioni. È il Metodo-Arkadin: «There is always a better way».

Si nega la forma chiusa, molto meglio un giro fulminante di palmizi, accostamenti di velocità contrapposte che collidono o si allontanano nello stesso fotogramma. Al centro i due amanti che si avvicinano o si scostano nella situazione del bacio, e intorno l’immagine circolare, palme che girano. Così oltre alla velocità dei movimenti c’è anche quella prodotta dall’espansione della scena. Allora questa pantomima, che risucchia e rigurgita Keystone, che fa meglio degli intermezzi di René Clair, che anticipa lo scandaglio architettonico di Antonioni, è uno spazio che si allunga come una faglia pronta al terremoto, così inattuale, da scartare la necessità di propaganda del suo tempo (1938), appannaggio di un’astralità che invece è di paurosa esattezza politica (pure il «rosso» John Berry aiuto regia), vocazione vulcanica alla pace, mentre tutto il mondo si prepara alla guerra.

Più che l’anello mancante di una filmografia mobile, Too Much Johnson è una penna sconosciuta, il tratto imprevisto e imprevedibile, quello che fin da allora un ragazzo di ventitrè anni sapeva sul montaggio, due immagini vicine non sono la loro somma, ma una terza immagine. Lassù sui tetti ci sono delle altezze sfalsate, un grattacielo messo accanto a una terrazza prensile, dà luogo a un vuoto che è un cielo, dove se ci passa qualcuno velocemente, la velocità è amplificata, come il fragore di una stella.

Abbiamo scritto insieme questo testo, Ciro e io, venti giorni fa, per la nascita di una nuova rivista. Ma l’architettura, la battaglia delle idee sono indelebilmente sue. «Il fragore di una stella» è di Ciro Giorgini. Ciao Ciro. (Lorenzo Esposito)