Cronaca di una spintarella annunciata: questo sarebbe stato il titolo più adatto per il primo posto di Oxford nell’edizione 2016-2017 dei World University Rankings di Times Higher Education (THE) diffusi mercoledì scorso. Di tutt’altro tenore, però, il messsaggio che è arrivato ai lettori italiani. L’ANSA, seguita a ruota dagli altri quotidiani, ci informa che “anno dopo anno il World University Ranking ha visto consolidare negli anni la sua attendibilità, tanto da essere considerato uno di quelli che ‘fanno testo’, grazie alla metodologia”. Di eccellenza certificata da “valutazioni oggettive come quella del Times Higher Education”, parla anche il neo-direttore della Scuola Normale Pisa, Vincenzo Barone, soddisfatto del primo posto tra le università italiane. Eppure, se davvero fossimo di fronte a valutazioni oggettive, Barone avrebbe poco da compiacersi, dato che la Normale è precipitata dal 63-esimo posto del 2014 al 137-esimo del 2016.

A DIRE IL VERO, alcuni dubbi circolavano sul web già da qualche giorno. “Secondo un «ranking watcher» come Richard Holmes, citato dalla rivista online Roars, all’origine dell’exploit di Oxford ci sarebbero proprio alcune provvidenziali modifiche dei criteri adottati nell’ultima edizione” scrive Orsola Riva su Corriere.it. Richard Holmes, titolare del blog University Ranking Watch, è un ranking analyst che da dieci anni svela trucchi e retroscena delle classifiche universitarie.

È bene ricordare che Times Higher Education è una rivista inglese e che quest’anno le università britanniche erano a rischio. Parte del punteggio su cui si basa la classifica dipende da un sondaggio reputazionale, i cui esiti, pubblicati a maggio, le avevano viste perdere terreno. Ed ecco che THE annuncia due cambiamenti: non solo il sondaggio reputazionale 2016 verrà annacquato con quello del 2015, ma per la prima volta, invece che contare solo gli articoli scientifici e le loro citazioni, si conteranno anche i libri. Due ritocchi i cui prevedibili effetti non sfuggono a Holmes, che formula il suo vaticinio: “le università britanniche potrebbero non retrocedere e, anzi, potrebbero persino salire un po’”. Forte di quanto accaduto alle sedi dei precedenti summit, Holmes prevede anche una rimonta di Berkeley, che tra pochi giorni ospiterà il World University Summit di THE. Il trucco? Un altro ritocco ad hoc, relativo al modo di contare le citazioni degli articoli scientifici che hanno più di 1.000 autori.

EBBENE, HOLMES AZZECCA IN PIENO LE PREVISIONI: Oxford strappa il primo posto a Caltech, Cambridge tiene il quarto posto e Berkeley, che nel 2015 era scivolata al 13-esimo posto, rientra nella Top-10. Sulla scia di Holmes, il blog www.roars.it tenta una previsione anche per le italiane, anticipando un calo generale, effetto collaterale del cambio della ricetta con cui viene cucinata la classifica, piuttosto che di un cambiamento reale. Una previsione azzeccata, dato che nessuna delle italiane in classifica nel 2015 riesce a migliorare la sua posizione. Degno di nota è l’exploit di una new entry, la Libera Università di Bolzano che entra nel segmento 251-300, sesta a pari merito tra le italiane, davanti alla Statale di Milano, a Padova e Pavia. Cosa è accaduto? È dal 2010 che Holmes denuncia l’aleatorietà dell’indicatore che conta le citazioni, facendo i nomi degli atenei miracolati da questa anomalia, tra cui Alessandria d’Egitto, nel 2010, e proprio la Normale di Pisa, nel 2014. Adesso dovrà citare anche Bolzano. “Valutazioni oggettive”, non c’è che dire.

«La classifica del Times conferma clamorosamente quello che abbiamo sempre sostenuto cioè che il sistema universitario va riformato con urgenza. Mi auguro di non dover più vedere in futuro la prima università italiana al 174° posto » dichiarava la Gelmini nel 2009. Sono passati nove anni, ma il feticcio della classifica da scalare rimane il pretesto preferito per giustificare la costruzione di poli di eccellenza sulle spoglie del sistema universitario nazionale. È questo il mantra in nome del quale si fanno riforme che non ci hanno fatto salire di un metro, ma sono state efficacissime nel ridurre il diritto allo studio e impoverire ricerca e didattica.