Accadde tutto per caso: mentre in un giorno molto freddo Arthur Conan Doyle se ne stava a studiare in solitudine per uno dei suoi esami del terzo anno di medicina, un collega di facoltà, Claud Currie, gli offrì un posto come medico di bordo in una battuta di caccia alle balene, sulla nave Hope. Sarebbe stato anche pagato e il viaggio sarebbe durato circa sei mesi. Al giovane Arthur, che si spaccava la testa con risultati non eccelsi sui manuali di Ippocrate sembrò un’occasione da non perdere. E infatti la colse al volo, arruolandosi all’istante al posto di Currie e prendendo in prestito da lui il corredo necessario per affrontare quel mare di ghiacci estremi. Salperà da Peterhead il 28 febbraio 1880, alle ore 14: dal cassero di poppa Arthur Conan Doyle si leverà il cappello per salutare una signora rimasta sul molo.

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Di Sherlock Holmes non c’è ancora traccia; d’altronde, il futuro scrittore ha poco più di vent’anni ed è inconsapevole di ciò che gli riserva il destino. Parte per il nord siderale con qualche taccuino prezioso tra le mani, alcune matite, libri di filosofia e molta voglia di imparare da quell’equipaggio esperto (58 i membri in tutto) uno dei mestieri più antichi del mondo. Il quaderno (l’originale è conservato presso la British Library di Londra) si riempirà giorno dopo giorno con annotazioni e disegni, trasformandosi in un diario di bordo dettagliatissimo, fino al carniere personale che segna il «bottino» – foche giovani, foche dal cappuccio, narvali, strolaghe, zigoli delle nevi – e al corredo iconografico (dalle orme di orso al capitano Gray che scuoia una balena).

Avventura nell’Artico (pubblicato per la prima volta da Utet, a cura di Jon Lellenberg e Daniel Stashower, traduzione di Davide Sapienza, pp. 253, euro 22) è un affascinante romanzo di iniziazione che si snoda in venticinquemila parole e settanta illustrazioni a china (qualcuna pure a colori). Al suo interno, il volume racchiude anche altri scritti artici, conferenze, racconti e narrazioni tra il leggendario e il realistico rielaborati poi nella sua autobiografia (Memories and Adventures).

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Non si sa se Arthur Conan Doyle avesse a quel tempo letto Melville; certo è che alcuni suoi passaggi – la lotta con una natura ostile, le tempeste, i venti sfavorevoli alla navigazione, l’incontro nell’oceano aperto con animali mitologici che diventano loro malgrado «territori di caccia» – hanno diverse assonanze con l’epopea di Moby Dick, anche se lo scrittore di Edimburgo è più scientifico, più scarno nello stile, molto concentrato sulla vita di bordo, mentre le sue osservazioni seguono il procedimento empirico dei naturalisti. «Linea bianca in cielo. Sembrano tutti convinti che troveremo il ghiaccio prima di domani. Dalla calma che c’è si capisce che ci siamo quasi. Il capitano mi ha raccontato alcuni dei suoi sogni più curiosi…».