John Berger passava la maggior parte del suo tempo in un villaggio arrampicato sulle Alpi francesi, che raggiunse agli inizi degli anni ’70, portando con sé una passione conoscitiva i cui confini si sono allargati nel tempo a comprendere tutte le affermazioni del visibile, dalle arti figurative al realismo fotografico al cinema: prospettive dello sguardo che non si è contentato di indagare, perché le praticava anche in prima persona.
Dobbiamo essergli grati per essersi fatto strada in decenni di viaggi, incontri, studi, letture, lavori, mantenendo intatta la sua vocazione ermeneutica e non tirandosi indietro di fronte ai rischi impliciti nell’affrontare argomenti tanto diversi; lo ricorderemo per avere mantenuto alta la temperatura del suo imprescindibile impegno politico nonostante la cultura del narcisismo spingesse verso altri approdi. Mai, nemmeno per un momento, ha pensato che la sua convinzione marxista potesse essere lasciata fuori da una delle tante porte attraversate, e proprio grazie a questa intimità profonda con la sua natura politica, mai ha dovuto staccarne manifesti da affidare impropriamente alla sua attività letteraria o critica.

Tutto ciò che l’attenzione di Berger ha catturato via via, ci è stato restituito vivo e parlante, scrollato dalla polvere delle musealizzazioni, ribelle a ogni forma di consegna, fosse quella della classicità o quella dell’avanguardia, entrambe destinate a nutrire una tradizione che Berger non si è mai stancato di reinventare. L’ha fatto attivando cortocircuiti sorprendenti, come quando ha disegnato una linea di continuità tra quelli che chiama «gli incubi del visibile»; e a quella linea ha appeso immagini lontane e senza nessi apparenti: nel Trionfo della morte di Bruegel ha letto una profezia dei campi di sterminio nazisti, nel pannello del Trittico delle delizie di Bosch che raffigura l’inferno ha visto un delirio spaziale in odore di globalizzazione. Le azioni degli zapatisti gli hanno ricordato gli attacchi degli aironi, più veloci di un battito di ciglia, e sull’ammirazione per quegli uccelli si è dilungato nella sua corrispondenza con Marcos. Che gli ha risposto: «Forse non erano aironi ma frammenti di una luna esplosa, polverizzata nel dicembre della giungla».

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Nulla di quel che Berger ha visto e ascoltato nasceva ai suoi occhi o alle sue orecchie così come ha scelto di raccontarcelo, eppure la prossimità di quelle immagini con la visione retinica e con la registrazione sonora resta lampante: la profondità del suo sguardo ha fatto emergere la superficie delle cose dalla quale Berger è sempre stato catturato, il vortice delle apparenze nelle quali subito si orientava il suo occhio interrogante, e tutto quel che coglieva e poi descriveva diventava luogo comune, ovvero zona aperta all’accoglienza di chi volesse ritrovarvisi. Via via che li scriveva, i suoi libri portavano a noi una economia di gesti e parole che non si vorrebbero dispersi: li riconduceva a noi traendoli dalle tele dei pittori, come in Sacche di resistenza, o prendendoli dai costumi quotidiani dei montanari e dei pastori, che animano anche alcuni tra i suoi racconti, da quelli più lunghi di Una volta in Europa, a quelli brevissimi di Fotocopie (entrambi pubblicati da Bollati Boringhieri).
La voce di John Berger era calda e esitante: ci parlammo una sola volta, alla fine del 2004, e questi sono alcuni frammenti di quella conversazione.

Da sempre lei si è dedicato a attività eterogenee – ha scritto saggi critici, fiction, riflessioni sulla politica, poesie – e si è ripromesso di non smettere mai di dipingere. Quali sono le linee di continuità che rintraccia in questo moltiplicarsi di passioni?
Se devo pensare a una costante della mia produzione, direi che la ritrovo in un sentimento tragico della vita: questo non vuol dire che io sia pessimista, o che mi manchi il senso della speranza, o che abbia un temperamento passivo, al contrario. Però mi rendo conto che sia quando provo a disegnare che a scrivere un poema o un film, c’è sempre al fondo un desiderio di riparare qualcosa che rischierebbe di andare perduto. Non sono certo un riformista, né concepisco la vita come una questione di riparazione. Quel che dico va inteso in senso metafisico. Quanto alla mia scrittura, non è mai subordinata a una decisione, è come se subissi un obbligo. Scrivo sempre indirizzandomi a qualcun altro, non amo la prima persona, né l’autobiografia. Questo non vuol dire, naturalmente, che non siano presenti nei miei libri, spunti di realtà personale, come per esempio in E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto, che è un po’ la continuazione del lavoro che facevo sotto le armi. Allora avevo diciotto anni, e grazie alla mia classe sociale e all’istruzione ricevuta ci si aspettava che diventassi un ufficiale, ma io rifiutai. Non dovetti mai combattere e venni assegnato alla istruzione delle reclute. Il quindici per cento circa di quei giovani soldati non riusciva a scrivere facilmente altro che il proprio nome, così mi domandavano di scrivere al posto loro le lettere che avrebbero mandato ai genitori, o agli amici. Mi è difficile ripensare a quel che ho prodotto via via perché tendo a dimenticarmelo, ma se cerco di capire da dove viene l’energia che mi muove, mi sembra di essere sempre spinto a una forma di ricostruzione, come se avessi davanti un vaso rotto e provassi a rincollarlo: certo, non lo riporterò alla sua condizione originaria, ma almeno sarà riparato.

Come descriverebbe questa rottura originaria, e cosa riguarda?
È una questione estremamente complicata, e a me sembra che riguardi un punto fondamentale della ontologia. Tra i filosofi che hanno trattato questo problema nel modo che sento a me più vicino ci sono Spinoza, Vico, e quella figura abbagliante che è Simone Weil: sono d’accordo con lei quando legge il libero arbitrio come la scelta tra un bene e un male intesi non come istanze oggettivabili nel confronto con il mondo esterno; quel che è implicato, infatti, sta dentro di noi, ciascuno lo porta in sé, e sta qui, forse, la rottura originaria di cui parlavo.

Quel che subito restituiscono i suoi libri è il protagonismo discreto di un grande osservatore. Andare al cuore delle cose passando per aperture periferiche, anche questo è un suo talento. Crede ci si possa educare a vedere?
L’osservazione è un processo essenziale allo spirito umano, dunque rientra nelle capacità di chiunque, basti pensare ai dipinti nelle grotte preistoriche di trentamila anni fa. Nella modernità, i cittadini delle grandi metropoli in un certo senso sono sottoposti a stimoli che impediscono di osservare, e queste sollecitazioni creano dipendenza. Se mi chiede consigli per una lezione sul guardare, la prima cosa che mi viene da dire è che è necessario un certo disprezzo per la cultura della spettacolarizzazione. Curiosamente, se penso a scritti dai quali apprendere quali siano i nemici dell’osservazione, mi vengono subito in mente quelli del grande filosofo della società dello spettacolo, Guy Debord. Inoltre, quando si guarda bisogna essere capaci di dimenticare se stessi: tutto si gioca nella capacità di restare aperti all’oggetto.

Quel che dice rimanda al fatto che lei ha affermato di avere una identità fragile, imprecisa: una considerazione tanto più confortante quanto maggiore è il dilagare dell’intolleranza legata a rivendicazioni di identità religiose, patriottiche, linguistiche, etniche…
Sono del tutto d’accordo, e per quel che mi riguarda, da quando sono datati i miei ricordi, è nelle azioni, o nelle reazioni ai fatti e alle persone che io trovo un senso della realtà. Senza queste sollecitazioni che mi vengono dal mondo esterno e dagli altri il mio senso identitario è in uno stato di sonno, è come addormentato. Da quando avevo circa dodici anni, le mie letture più importanti sono state di poesia, e la maggior parte di questi versi che ancora leggo e rileggo è scritta in lingue straniere. Perciò, sono abituato a intrattenermi al di fuori della mia lingua. Con l’età capisco meglio come abbia giocato un ruolo anche il fatto che mio nonno paterno era un ebreo emigrato da Trieste, dunque lui e la sua famiglia parlavano italiano e probabilmente anche yiddish. Inoltre, fin da quando avevo una ventina d’anni, sentii che in Inghilterra non ero precisamente a casa mia, perciò coltivavo l’idea di andarmene non appena fosse stato economicamente possibile, cosa che feci ormai circa quarant’anni fa. Da allora ho passato la maggior parte del mio tempo in Francia, paese che amo molto, certo, ma al quale sono ben consapevole di non appartenere. Né sento di avere una identità religiosa, perché pur essendo il rapporto con la religione per me molto importante, non passa attraverso le istituzioni. Conosce quel grande scrittore russo che è Andrej Platonov? In uno dei suoi racconti c’è una semplice frase che dice: condividere è toccare il reale. Come se al di fuori della condivisione fosse solo possibile stare a fianco del reale. Ecco, a questa frase sì che mi sento di appartenere.

In effetti, lei passa continuamente da una lingua all’altra e da una forma espressiva all’altra: si muove fra prosa, poesia, critica d’arte, e pittura. Cosa le ha insegnato questa prassi di decostruzione continua del già dato?
Intanto, mi ha insegnato che nella traduzione di parole da una lingua all’altra ciò di cui bisogna andare alla ricerca è quanto sta dietro il testo, quel che viene prima delle parole. In gioco, allora, non ci sono soltanto scritti ma anche ciò che era lì a aspettare il linguaggio, nella immaginazione dell’autore. Si dice che la fenomenologia non abbia fatto nulla per comprendere la lingua delle immagini, ma io non sono d’accordo. Forse, dietro questa critica c’è un modo di pensare un po’ cerebrale, perché è probabile che il linguaggio visuale non sia spiegabile con le parole. Per quanto mi riguarda, quando cerco di parlare di un’opera quel che provo a fare è raccontare con le parole una storia parallela a quanto vedo succedere nel suo spazio; ma questo non equivale mai a renderla davvero comprensibile, a tradurre in parole quel che compete alla visualità. Ne viene fuori qualcosa che somiglia più a una metafora che a una spiegazione, e non può essere altrimenti, perché sono molte le cose inspiegabili con la logica delle parole: per fortuna, perché altrimenti la pittura e ogni fatto visuale sarebbero solamente illustrazioni. Si dice che io sia un critico d’arte ma, in effetti, quando scrivo sulla pittura quel che succede è che mi trasformo in uno story-teller. Nel momento in cui si prova a spiegare con le parole la fisicità di un’opera, ecco che questa matericità sparisce.

Lei ha più volte insistito sulla necessità di coltivare la memoria. Ora, Susan Sontag, che lei ha più volte dichiarato di ammirare, sostiene in «Di fronte al dolore degli altri» che bisogna imparare a dimenticare. È d’accordo?
Ricordo questa frase, e condivido il senso di ciò che le sta alle spalle, ma non la formulazione, che mi turba un po’. Io direi piuttosto che bisogna perdonare, non dimenticare. Ma questo non fa parte del vocabolario di Susan Sontag. Quando penso al perdono ho in mente Antigone: non credo, infatti, che sia la chiesa cattolica a avere il monopolio del perdono.