L’epistolario di Louis-Ferdinand Céline non è una didascalia né una integrazione dei romanzi ma ne è, viceversa, la traccia itinerante così come il banco di prova. Non è un caso che il suo maggiore studioso, Henri Godard, abbia nel 2009 curato per la Pléiade, in collaborazione con Jean-Paul Louis, il volume delle Lettres (1907-1961) che pur costituendone una scelta consta di qualcosa come duemila pagine.

Esoso e sorprendente bilancio per un individuo bollato di tetraggine, di preconcetta ostilità agli umani e di inguaribile misantropia, il suo epistolario si profila come uno sfogatoio e, insieme, come una necessaria barra di appoggio, quasi una violazione del silenzio che intanto incuba il rancore, vero e proprio soundtrack della sua vita quotidiana e di una ispirazione che si manifesta per rigurgiti dell’odio. Scrisse infatti al momento dell’esordio, rendendo omaggio a Zola, tra i pochi cui riconoscesse l’onestà dello sguardo e una parola veridica, che la musica del suo stile, un argot da piccola gente, era potuta scaturire soltanto dall’odio.
Il risentimento, il rancore, una aggressività che non trova requie e ha bisogno di mutare bersaglio di continuo (come sanno i lettori del Viaggio al termine della notte, di Morte a credito e della terminale Trilogia del Nord, per tacere ovviamente dei pamphlet anni trenta, razzisti e antisemiti) insomma tutto il repertorio di una proclamata disumanità o comunque di una primitiva diffidenza nei riguardi degli uomini è la musa di Céline. O piuttosto, negli eccessi e negli improperi che non vogliono risparmiare nessuno, lì si celano i parafarnalia di una sensibilità ferita ab origine, di una condizione di minorità sociale e culturale (il figlio della merlettaia e di un modesto impiegato, l’autodidatta e il medico di banlieue) mai riscattata e in ogni caso mai accettata.
L’epistolario ci dice che Céline è un uomo incapace di ricevere un dono e, anzi, di concepirlo perché sempre sospetta nel dono una truffa, un raggiro. Le sue lettere ci dicono altresì che per lui è inimmaginabile la gratuità dell’amore, se non nella forma di un inganno da adolescenti, se persino la forma del patto e la nuda natura dello scambio gli inducono sospetto e acrimonia.
Va da sé che outsider per vocazione ed elezione, anarchico e indocile, incapace di fedeltà se non al fragore invasivo del suo genio, Céline ha maltrattato e vituperato, o peggio sistematicamente diffamato, i propri editori quali manutengoli, profittatori e infami pescicani, come attestano appunto le sue Lettere agli editori (Quodlibet, pp. 250, € 19.00), una selezione annotata e accuratamente tradotta da Martina Cardelli, che trasceglie dall’invaso delle Lettres ma specialmente dai Cahiers Céline (editi da Gallimard fin dagli anni settanta) e da diversi carteggi monografici . Le lettere sono circa duecento (solo per eccezione sono incluse missive dei corrispondenti), e vengono ordinate per cronologia, fra il ’32, l’anno in cui esplode il Voyage, e il ’61, l’anno in cui muore lo scrittore.
Tre sono i principali destinatari: prima Denoel, colui che lo pubblicò battendo sul tempo un consulente di prestigio della N.R.F. (l’esteta e diplomatico di carriera Benjamin Crémieux); quindi, negli anni della fuga da Parigi e dell’esilio danese, Pierre Monnier, che fu tanto suo editore clandestino quanto un agente decisivo per la rentrée a seguito dell’amnistia e del ritorno in Francia nel ’51; infine Gaston Gallimard (col suo maggiore editor, il critico Jean Paulhan) che acquisisce Céline in via definitiva, lo rilancia e lo immette addirittura vivo nella prestigiosa Bibliothèque de la Pléiade.

Tuttavia, Céline non si smentisce perché può variare l’occasione ma il tono delle lettere rimane uno e cioè la lamentela vittimistica. Dice di sentirsi un operaio sfruttato e depredato dei diritti d’autore, declama una panoplia di atti di accusa, perché costoro, gli editori, a vario titolo sarebbero incapaci di stampare un libro comme il faut, negati a valorizzarlo se non in presenza di paccottiglia commerciale, invischiati come sono tutti quanti da problemi di cocktail, di mondanità e di eterne vacanze. Qui l’invettiva arriva regolarmente al diapason, l’aggressività si libera in un grottesco che colpisce l’interlocutore/vittima nello stesso momento in cui sembra blandirlo o irretirlo.

Chi legge deve sentirsi necessariamente inadeguato, in colpa, ma nel frattempo lusingato dal fatto di venire omaggiato dai colpi di cotanto scrittore. Eloquente è il caso di Gaston Gallimard (e del suo povero assistente Paulhan detto Loukoum, insomma «Leccalecca»), il quale lo ha redento dalla condizione di paria, lo ha ripubblicato in blocco, gli ha versato consistenti anticipi, gli ha affiliato un consulente capace e affettuoso (il giovane romanziere Roger Nimier, l’autore di Le spade), lo ha «pléiadizzato» eppure si sente dare dell’ipocrita e del mentitore, del «cioccolataio» e del vecchio insatirito.
A lui scrive per esempio il 2 aprile del ’55 e a proposito della pubblicazione in volume dei Colloqui con il Professor Y, il solo testo di poetica che Céline abbia ufficialmente scritto in vita sua, costretto a redigerlo per motivi che oggi si direbbero di visibilità mediatica: «Lei è Compare Alibi, ha sempre la risposta pronta, evasiva o sbagliata ma sempre pronta! Certo che funzionerà se si danno da fare, se glielo ordina in quanto Papa della Sinagoga ‘N.R.F., rosso-frocio-gaullista’. Ridicola questa tiratura di 6.000 copie Vuol farmi crepare! Mi strangola! Papa rosso, frocio, gaullista! Viva Israele! Viva il ghetto N.R.F., frocio-gaullista-partigiano! E il suo Papa!»

C’è solo da aggiungere che l’invettiva per Céline non procede tanto o solo dalla intemperanza del carattere quanto dalla necessità di dare un volto e un nome agli assassini del pauvre Ferdinand, che è la maschera terminale e il personaggio essenziale, la vittima per eccellenza, della sua arte visionaria.
Basta leggere le prime cinquanta pagine di Da un castello all’altro (’57) dove Gaston nella sua scuderia tiene le fila del complotto o andare al baricentro di Pantomima per un’altra volta (’52), il romanzo del ritorno, in cui Ferdinand si vede linciato e sotterrato dagli autori della scuderia medesima, mentre i suoi nemici giurati (Sartre, Mauriac, Aragon) gli urinano addosso dall’orlo della fossa: è lì che alla faccia di lui se la ride Gaston, le vieux cochon, il vecchio porco naturalmente.