La chiave per interpretare la fiammata degli scioperi estivi nei trasporti – e non solo in Italia – sta nella richiesta di aumentare i salari e rinnovare i contratti scaduti da anni. Richiesta sentita, e ancora presumibilmente al di sotto di un auspicabile quanto necessario livello di generalizzazione all’intera società. E tuttavia è una prima risposta all’interno della cornice economico-politica post-covid segnata dall’aumento colossale dei profitti e dal ristagno dei salari.

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L’inflazione che sta taglieggiando i salari, e spinge alcuni settori a mobilitarsi, è dovuta ai profitti ed è alimentata dal disallineamento tra prezzi crescenti e salari stagnanti. Lo ha ribadito una nota congiunturale diffusa ieri dalla Fisac Cgil. La chiamano, non a caso, «inflazione da avidità» (Greed Inflation). Una situazione che assume contorni drammatici nei paesi dove non esistono né misure di contenimento dei prezzi come la Spagna, né misure per incrementare i salari come la Francia. L’Italia, soprattutto. Qui, si è registrato il più forte calo dei salari reali tra le principali economie Ocse (-7% alla fine del 2022) e la discesa è proseguita nel primo trimestre del 2023 (-7,5% su base annua). Le previsioni prevedono un incremento dei salari nominali intorno al 3,6% per il 2023/24, «quindi ben al di sotto della dinamica inflattiva vista al 6,4% nel 2023 e al 3% nel 2024.

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A peggiorare le cose, nell’evidente tentativo di proteggere i profitti e punire doppiamente i lavoratori con i bassi salari e i mutui ancora aperti per i prossimi decenni, sono arrivati gli aumenti dei tassi di interesse decisi dalla Bce che “non stanno producendo gli effetti sul contenimento del costo della vita – sostiene Susy Esposito, segretaria della Fisac Cgil – Al contrario, le scelte di Francoforte, che hanno portato il tasso di rifinanziamento principale al 4% attuale dallo 0,5% in meno di un anno, e che già a fine luglio potrebbe salire al 4,5%, sta gravando in maniera pesante su lavoratori e pensionati, e si riflette in un calo dei depositi”.

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Un puntuale commento sulla «presunta crescita dell’economia italiana» di Andrea Fumagalli e Roberto Romano, pubblicato in un «diario della crisi» sui siti Effimera, Machina e El Salto, ha evidenziato come in Italia il rapporto tra reddito da lavoro e valore aggiunto (salario relativo) sia calato al 45,55% nel 2021 ed è ancora diminuito nel 2022, contro il 53% della media europea, il 59% della Germania, il 58% della Francia, il 52% della Spagna e il 55% degli Stati Uniti. In altre parole l’Italia è tra i paesi europei dove si lavora di più (nel 2023, 1694 ore all’anno contro le 1341 della Germania e le 1511 della Francia) e si guadagna di meno. La crescita è solo del lavoro povero. È un modello sociale, produttivo e ideologico che il governo Meloni sta ampliando. Sarebbe uno scenario ideale per una lotta di classe. La si combattere pure, in maniera frammentaria e non uniforme.

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Anche in Italia si sta consolidando un orientamento sulle risposte minime da fornire nella contingenza: veri rinnovi contrattuali (magari, senza facili entusiasmi come sulla scuola);controllo dei prezzi dei beni alimentari e energetici; tassazione degli extra profitti. Restano le divisioni. Ci vorrebbe la forza.