Siamo abituati a considerare Philip Roth un gigante della narrativa statunitense, amato dal pubblico e stimato dalla critica, ciò nonostante, nel corso degli anni, la sua fortuna in Italia ha seguito un percorso altalenante, caratterizzato da una serie di semplificazioni e fraintendimenti che in alcuni periodi hanno generato una netta polarizzazione della critica, con stroncature anche rilevanti (per esempio quelle di Carlo Cassola e Natalia Ginzburg). Ripercorrendo la storia dell’ «amore incostante» provato dallo scrittore di Newark per il nostro paese (e viceversa), Francesco Samarini ha compiuto, tanto negli archivi delle case editrici quanto tra le pagine dei quotidiani nazionali ed esteri degli ultimi cinquant’anni, un lavoro bio-bibliografico esaustivo e rigoroso, confluito in Philip Roth e l’Italia (Longo Editore, 344 pp., 28 €), offrendo una lettura trasversale delle dinamiche legate alla pubblicazione e ricezione delle opere di Roth presso il nostro pubblico. Partendo dalla biografia dell’autore e seguendo un ordine rigorosamente cronologico, Samarini ricostruisce la breve visita turistica di Roth in Toscana nel 1958, per poi soffermarsi sul lungo soggiorno romano dell’anno successivo, compiuto durante la stesura del secondo romanzo, Letting Go. Scopriamo che in questa occasione Roth frequentò l’Accademia Americana, si avvicinò al cinema neorealista e si appassionò alla letteratura italiana leggendo classici come Verga e Pirandello, ma anche scrittori contemporanei come Ginzburg, Calvino e Moravia – autore che Roth incontrò di persona, a quanto pare senza ricavarne una buona impressione. All’epoca, lo scrittore americano era pressoché sconosciuto, ma il National Book Award conferito a Goodbye, Columbus contribuì a promuovere la sua opera anche all’estero. Il merito della scoperta italiana di Roth spetta a Valentino Bompiani, sempre attento alla letteratura statunitense sin dai tempi della storica antologia Americana. Fu infatti l’editore milanese il primo a pubblicare in traduzione il suo libro d’esordio già nel 1960, ad appena un anno dall’edizione americana. Proprio le trascrizioni della corrispondenza, in gran parte inedita, di Roth con Bompiani costituiscono un ulteriore elemento di interesse del saggio, facendo emergere, ad esempio, la netta opposizione dello scrittore a qualsiasi modifica o censura proposte alle sue opere.

Dopo «l’eco limitata» suscitata in Italia dai suoi primi libri, la notorietà dello scrittore compie «un balzo davvero eccezionale» con l’uscita nel 1969 di Lamento di Portnoy; il merito però è soprattutto dell’aspetto scandalistico del romanzo, che divide nettamente il giudizio della critica. Da qui in avanti, l’opera dello scrittore statunitense entra in «una fase di lenta ma inesorabile discesa», che cristallizza nel pubblico italiano l’immagine di un Roth narcisista e irriverente, uno «sporcaccione» esageratamente provocatorio e ripetitivo. «La stagnazione», scrive Samarini, «perdura e si aggrava negli anni Ottanta e nei primi Novanta», fino al trionfo improvviso di Pastorale americana nel 1997: la sua pubblicazione «inaugura una serie ininterrotta di successi, emancipando l’autore da un perdurante pregiudizio critico», ma al tempo stesso dà origine a una Roth-mania che raggiunge punte estreme di fanatismo e campanilismo. Negli anni Duemila, infine, l’acquisizione dei diritti completi delle opere da parte di Einaudi, insieme alla pubblicazione dei tre volumi dei Meridiani Mondadori, tra il 2017 e il 2019, sancisce di fatto la consacrazione di Roth a classico contemporaneo.