Da oggi siamo in debito con la madre terra. Si chiama Earth Overshoot Day ed è il puntuale rapporto di metà agosto stilato da Global Footprint Network, il centro di ricerca che studia l’evolversi dell’impronta ecologica dell’umanità. L’aspetto più efficace riguarda proprio l’immagine di un’umanità che ogni anno dopo otto mesi ha consumato tutto quello che il pianeta poteva dare e che da quel giorno in poi vive al di sopra delle proprie possibilità ecologiche causando danni a breve termine per se stessa – si considerino solo i cambiamenti climatici, e mai come quest’estate ne sappiamo qualcosa – ma soprattutto ponendo le basi per una vera e propria catastrofe che però si abbatterà sulle prossime generazioni.

In pratica dal 20 agosto in poi anche quest’anno stiamo sottraendo beni e servizi al futuro perchè la terra non è in grado di rigenerare piante, aria, suolo fertile a questi ritmi di sfruttamento, né tanto meno di smaltire rifiuti ed emissioni nell’atmosfera di Co2. Il continuo richiamo a nuove politiche ambientali non si traduce nei fatti in un vero cambiamento di sviluppo. Basti pensare alle enormi difficoltà che ogni volta inceppano e rallentano le trattative per l’implementamento dei vari trattati internazionali sul tema, a partire dal protocollo di Kyoto. Casomai è aumentato il livello di consapevolezza e le pratiche di singoli individui. E con il passare dei decenni va sempre peggio. Fino al 1961 l’umanità consumava tre quarti delle risorse disponibili, dal cibo al legname, dall’acqua alle ricchezze del mare. Dagli anni Settanta si è registrato una pressione sempre più costante sull’ecosistema globale. Adesso ci vorrebbe una terra e mezza per fare fronte al fabbisogno di risorse rinnovabili necessarie e prima della metà del secolo ci vorrebbe l’equivalenti di tre pianeti.
L’85% della popolazione mondiale vive in paesi che chiedono ai loro territori più di quanto essi possano dare. L’Italia non fa eccezione: noi usiamo quattro volte di più della risorse disponibili del nostro paese. Peggio di noi fanno il Giappone (7 volte di più) e gli Emirati Arabi (12 volte di più). Come è noto, se tutti i 7 miliardi di cittadini del mondo si avvicinassero ai consumi dei soli Stati uniti l’estinzione della nostra specie sarebbe certa. “Il problema del superamento della capacità rigenerativa del pianeta sta diventando la sfida del ventunesimo secolo – ha concluso Mathis Wakernagel, presidente del Global Footprint Network – è un problema sia economico che ecologico”.

E questo è il punto. Perché lanciare l’ennesimo allarme certo non basta più. Si tratta di cambiare profondamento il mondo per salvarlo dal disastro e il più presto possibile. Dunque che fare? Lo abbiamo chiesto a Piero Sardo, presidente della fondazione Slow Food per la biodiversità. “Questi rapporti escono puntalmente, ma ho qualche dubbio sulla loro efficacia. Spesso fanno sensazione per un giorno e poi cadono nel vuoto lasciando un senso di ineluttabile rassegnazione. L’ambientalismo è di due tipi. Utilitaristisco: non danneggiare se stessi, per esempio non buttare qualcosa in mare se non me lo voglio ritrovare sulla spiaggia. E poi empatico: bisogna essere solidali con le generazioni future, e questo è molto più difficile da riuscire a inculcare. Per quanto riguarde le soluzioni, c’è quella individualista, ma non basta senza quella politica”. E quella politica è una vera rivoluzione. “Ribaltare la logica dello sviluppo e dei consumi come unica ricetta per le crisi. Qui si tratta di produrre, consumare, inquinare meno e redistribuire di più. Ma anche di sapere usare meglio non solo lo spazio che ci offre la terra ma anche il tempo, per stare con gli altri, per leggere un libro al posto di fare shopping, perché un cambiamento sociale e culturale produce un cambiamento politico ed ecologico”.