Vorrei partire da un evento: sabato 7 maggio a Reggio Calabria, storica capitale della più potente organizzazione criminale italiana, è stata inaugurata una esposizione permanente, presso il Palacultura, dei 104 quadri sequestrati all’imprenditore «ndranghetista» Gioacchino Campolo. Si tratta di opere di grandi artisti : da Dalì a Fontana, da Sironi a De Chirico, da Ligabue a Carrà, ecc. per un valore di svariati milioni di euro.

Potrà sembrare un fatto marginale, ma questa operazione fortemente voluta dall’assessore provinciale alla cultura Edoardo Lamberti e condivisa dalle altre istituzioni locali, ha un significato che va al di là della contingenza: una ricchezza privata, posseduta da una esponente della nuova borghesia mafiosa, viene espropriato e diventa un bene fruibile gratuitamente da tutta la collettività, un Bene Comune.

Non basta. Nella stessa giornata, il direttore Umberto Postiglione dell’Agenzia Nazionale per l’Amministrazione dei Beni Sequestrati e Confiscati alla Criminalità Organizzata, ha consegnato al comune di Reggio 21 immobili da utilizzare per finalità sociali, 19 unità immobiliare da destinare ad attività commerciali con i proventi dell’affitto da destinare a progetti nel campo sociale, 24 immobili da abitazione da destinare alle fasce sociali più svantaggiate.

Vorrei che riflettessimo attentamente su questi ed altri dati. Come si legge (Altreconomia, numero di Aprile) in un report di Pierpaolo Romani, presidente di Avviso Pubblico: dal 1982 ad oggi i beni immobili confiscati alle mafie superano le 23.000 unità e 3.500 sono le aziende confiscate. Al primo posto la Sicilia con oltre 5.000 beni immobili confiscati, seguita dalla Campania, Calabria e Lombardia dove la penetrazione delle organizzazioni criminali sta crescendo a vista d’occhio.

Sappiamo bene che il sistema di destinazione sociale di questi beni, grazie alla Legge 109/96 voluta da Libera che raccolse all’epoca un milione di firme, è ancora poco efficiente e farraginoso, ma quello che conta è la direzione. Stiamo andando, infatti, verso una redistribuzione della ricchezza che passa dalle mani della borghesia «mafiosa», la nuova classe sociale emergente, a quella delle cooperative di giovani che coltivano le terre confiscate, a spazi pubblici , servizi sociali, enti locali.

Grazie al sacrificio del mai ricordato abbastanza Pio La Torre abbiamo in Italia una legge che colpisce al cuore l’accumulazione mafiosa del capitale. Una legislazione che stanno copiando tanti altri paesi duramente colpiti dal dominio di questa nuova borghesia che usa i proventi dei mercati illegali per controllare in misura crescente l’economia e le istituzioni di paesi piccoli (come il Montenegro) e grandi (come il Messico).

La deriva criminale del capitalismo è ormai un fatto palese che viene ancora negato dall’ideologia del libero mercato, del pensiero unico che lo riduce al rango di devianza sociale. Viceversa, l’accumulazione criminale del capitale è riuscita in poco più di trent’anni ad accumulare somme stratosferiche di capitali che vengono investiti nelle Borse, nell’acquisto di case e terreni, di aziende, in tutto il mondo.

Come scriveva il grande Fernand Braudel in «Dinamiche del capitalismo» il vero motore di questo sistema, che va distinto dall’economia mercantile, è l’extraprofitto, il profitto eccezionale che si può ricavare in alcuni settori e fasi del ciclo economico.

Alti rischi ed alti profitti segnano il passaggio dall’economia di mercato (quella descritta da Marx con la sequenza Merce-Denaro-Merce) al mercato capitalistico in cui l’accumulazione di capitale è il fine assoluto (la sequenza diviene Denaro-Merce-Denaro). Questo modo di produzione era destinato, secondo Marx, ad una polarizzazione sociale crescente che avrebbe creato le condizioni per una rivoluzione ed un cambio di sistema.

Questa polarizzazione la stiamo vivendo e subendo, è certificata anche dal famoso saggio di Piketty sulle diseguaglianze patrimoniali crescenti, ma non ha finora generato quella reazione di massa, la rivoluzione di quella maggioranza della popolazione che viene sempre più impoverita.

Quello che Marx non poteva prevedere era che la componente criminale diventasse dominante e creasse una nuova contraddizione di classe. Direi di più: il carattere distruttivo del capitalismo maturo, ben documentato da Piero Bevilacqua ne «Il grande saccheggio», non riguarda solo la sfera ambientale, la distruzione degli ecosistemi, ma anche quella sociale ed economica. E qui è entrata sulla scena della storia quella reazione sociale che Karl Polanyi definiva come «autodifesa della società». Ed è proprio il nostro paese, in cui sono state poste le basi di questa autodifesa sociale, che dovremmo guardare con estrema attenzione.

L’Italia, anche in questo caso, si presenta come un laboratorio politico di prima grandezza. Siamo stati il paese che ha inventato il fascismo come forma di governo (poi imitato da tanti), quello che ha avuto il più grande partito comunista d’Occidente, il sindacato più forte e conflittuale (anni ’60 e ’70), e siamo anche il paese occidentale dove più rapida e violenta è stata la penetrazione dell’economia criminale ma altrettanto forte è stata la risposta.

Oggi crediamo, ma lo approfondiremo un’altra volta, che i beni e le aziende confiscate all’economia criminale non debbano ritornare nell’agone del mercato capitalistico che le distruggerebbe in breve tempo, dimostrando che gli imprenditori mafiosi gestiscono meglio dello Stato e delle cooperative giovanili.

Da queste confische di beni/aziende può nascere un’Altreconomia, basata sui principi del fair trade e sulle reti dell’economia solidale. In poche parole: dalla putrefazione del capitalismo, di cui l’economia criminale è parte costituente, possono nascere i fiori di un socialismo possibile nel XXI secolo.