L’unico indizio di questo inverno dall’abnorme mitezza sono i venti della guerra fredda, tornati prepotentemente a soffiare fra est e ovest. Dopo gli attriti in Ucraina e sull’intervento militare russo in Siria, le relazioni fra Londra e Mosca – con il potere giudiziario della prima che accusa di probabile omicidio il presidente della seconda – permangono congelati in un mutuo e riluttante abbraccio di realpolitik.

L’eliminazione dell’ex-agente russo Aleksandr Litvinenko ha tutti i crismi per provenire dagli anni Cinquanta piuttosto che nella seconda metà del primo decennio del terzo millennio.

La modalità, l’isotopo nella teiera in fine porcellana, i grandi alberghi di Mayfair: eccetto l’immagine terribile dell’uomo morente, tutto fa parte di un immaginario familiare alla rappresentazione letterario-cinematografica. Putin incarna perfettamente l’immagine del vilain di Bond.

Siamo di fronte a una narrativa perfida e vintage, se non fosse per la tragedia insita in ogni omicidio. Una tragedia in cui uno dei due sospettati, Lugovoi, è stato poi eletto deputato alla Duma proprio per escludere categoricamente la possibilità che sia giudicato dal paese in cui avrebbe commesso il crimine, mentre il governo britannico si limita a delle dichiarazioni tutto sommato quasi concilianti nel perfetto ossequio della privacy dei propri servizi segreti.

È uno strano cortocircuito storico ad aggiungere un nuovo capitolo al grande mosaico spionistico in cui tutti hanno sempre spiato tutti. E non è un caso che Edward Snowden si trovi in Russia. Una lettura cinica e tecnica vorrebbe quest’omicidio una delle reciproche routiniere esecuzioni di agenti avversari che avvengono di soppiatto precipitata nel clamore mediatico da cui di solito si tengono debitamente lontane.

Il Regno Unito nomina abitualmente commissioni d’inchiesta per accertare responsabilità in scandali e similari. Che si sono rivelate ripetutamente inconcludenti. Quella sulle intercettazione telefoniche ha finito per scontentare tutti, quella sulle responsabilità dell’invasione dell’Iraq, la Chilcot enquiry, che dura da sei anni, costringe Tony Blair all’insonnia ed è costata finora 10 milioni di sterline, non è ancora finita nell’imbarazzo generale. E ora questa.

Un continuo dipanarsi di «pubbliche inchieste» i cui sfortunati assegnatari devono zigzagare attorno a prove che non possono essere addotte in quanto lesive dell’«interesse nazionale», o dell’interesse privato, a seconda dei casi.

È dunque orribilmente naive anche solo sperare che l’Mi6 – l’intelligence britannica – lasci anche solo trapelare quanto è successo. Non è un film di Spielberg. Viene solo recitato come se lo fosse.