Una storia che ricorda un’epopea dove non c’è un solo eroe. I protagonisti sono infatti le e le voci di milioni di uomini e donne. La storia parte dal cuore dell’Africa per spingersi fino al largo, in mezzo all’Oceano e, a ritroso, riporta le tracce dell’acqua salmastra fin quasi alle pendici delle montagne che circondano la zona dei grandi laghi, al centro del «continente nero».
Quella che lo studioso e scrittore belga David Van Reybrouck racconta nelle pagine di Congo (Feltrinelli, pp. 674, euro 25) è una vicenda storica che supera gli stessi confini di quella parte dell’Africa che ha preso il nome dal grande fume che vi scorre per migliaia di chilometri, per confondersi e intrecciarsi con il destino di tutti gli africani. Una storia collettiva che non nasce con l’arrivo dell’«uomo bianco» e lo sviluppo di un colonialismo predatore e violento, come non può essere ridotta alla deriva conosciuta da molti leader e regimi sorti dopo la stagione delle indipendenze nazionali, ma che è fatta dell’accumularsi di esperienze e scoperte, utopie e sconfitte, sogni e drammatici risvegli alla realtà.
Un procedere degli eventi che, come accade nel gigantesco estuario descritto dal corso del fiume Congo, mescola elementi e sovrappone senza sosta una traccia all’altra, senza cancellarne definitivamente la memoria nell’esperienza degli uomini come nella morfologia della natura. Archeologo di formazione e narratore per amore, Van Reybrouck riporta in superficie ogni frammento di questa lunga storia, dando voce a centinaia di protagonisti di vicende grandi e piccole e descrivendo un quadro che, attraverso più di un secolo, ci porta a condividere le esperienze quotidiane dei congolesi, si tratti di una «sala da ballo» o di uno dei palazzi del potere di Kinshasa. Un viaggio nel cuore dell’Africa compiuto con passione, ma senza rinunciare mai alla lucidità di chi intende prima di tutto fare un’opera di verità, restituendo la parola agli africani.

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A differenza di quanto accade nel mondo anglosassone, e soprattutto degli Stati Uniti, dove il mescolare Storia e narrativa, la cosiddetta «non-fiction letteraria», è piuttosto diffuso, in Europa è difficile imbattersi in un volume di 700 pagine che racconta un secolo di vicende storiche con il ritmo di un romanzo. Come dobbiamo considerare «Congo»?

Ho cercato di scrivere il libro che avrei voluto leggere io per primo: qualcosa che raccontasse le vicende di questo paese in una forma allo stesso tempo storica e letteraria. Dopo il mio primo viaggio in Congo, nel 2003, al mio ritorno avevo cercato invano nelle librerie di Buxelles un volume del genere. Frustrato nella mia ricerca, credo di aver iniziato allora a pensare che forse avrei potuto tentare di scrivere qualcosa del genere: era solo l’inizio di un progetto che mi avrebbe impegnato in seguito per più di sei anni. L’Africa mi ha sempre appassionato, i miei studi e il mio lavoro di archeologo mi hanno sempre fatto guardare con grande passione a quel continente. E poi c’era l’influenza di mio padre che aveva lavorato come ingegnere minerario in Congo già prima che io nascessi. Così ho iniziato a lavorare al libro mettendo insieme suggestioni e stimoli diversi: la storiografia, il giornalismo e la letteratura.

Lei ha sostenuto che la Storia dell’Africa può essere meglio raccontata attraverso «i dettagli»: alla base di «Congo» ci sono circa 500 interviste realizzate nel paese. Sono questi africani di ogni età che ci raccontano in prima persona la storia del loro paese attraverso il suo libro?

Per molti versi risponderei positivamente. Inizialmente pensavo di raggruppare le interviste per temi o periodi, partendo dall’epoca precoloniale per arrivare fino ai giorni nostri. Poi però mi sono reso conto che non aveva senso. Ad esempio, incontrando una figura come quella di Etienne Nkasi, che era nato addirittura alla fine dell’Ottocento, ho potuto guardare da vicino la storia di un intero secolo: le vicende politiche come i costumi della popolazione, l’evoluzione della musica piuttosto che le abitudini alimentari. Non volevo scrivere una storia «bianca», ma neppure quella dell’élite nera del paese. Volevo raccontare la storia sociale del Congo, cogliere il modo in cui la gente normale aveva vissuto ogni singola trasformazione.
Del resto, credo che la «grande Storia» si manifesti soprattutto attraverso dei dettagli che talvolta possono anche apparire a prima vista banali, ma che sono in grado di rivelare la reale complessità di un paese. Un po’ quello che faceva Roland Barthes raccontando la storia francese attraverso l’apparizione del modello Ds della fabbrica automobilistica Citroën o le varie edizioni del Tour de France. Lo considero anche un approccio piuttosto democratico, che dà voce alle persone, all’inverso di ciò che avviene con il cosiddetto storytelling oggi così in voga nel mondo della comunicazione come della politica. Inoltre, per capire l’Africa si deve avere necessariamente un certo senso del dettaglio: lì tutto cambia in modo rapidissimo.

Il suo lungo viaggio attraverso la storia del Congo si compie tra luci ed ombre, sfatando spesso alcuni luoghi comuni, specie della cultura progressista. Così, se è molto duro il giudizio sull’epoca del colonialismo belga, ai suoi occhi il dittatore Mobutu sembra aver fatto per il paese più cose del «padre della patria», Lumumba. Lei dice di condividere con lo scrittore congolese Alain Mabanckou (più volte intervistato dal manifesto), l’idea che tra gli africani stia crescendo una visione nuova quanto al loro passato e al futuro che possono costruire a partire da loro stessi. Ci crede davvero?

Assolutamente. Sia io che Mabanckou siamo nati dopo l’indipendenza del Congo dal Belgio e, credo di poter dire, al pari di molti miei coetanei africani, che non subiamo più il «complesso» del colonialismo, nel senso che senza negare le gravi colpe degli europei – in paesi come la Francia e il Blegio, specie in questo momento, si deve tornare a guardare a quelle vicende spesso estromesse dalla memoria collettiva -, o nel mio caso il senso di colpa automatico che mi dovrebbe derivare dal fatto di appartenere al paese che soggiogò i congolesi, siamo anche in grado di valutare cosa è stato fatto davvero nel paese nel corso dell’ultimo mezzo secolo. Per questo ho cercato di tracciare un bilancio il più oggettivo possibile dell’azione di Patrice Lumumba che guidò il paese all’indipendenza dal Belgio nel 1960.
Lumumba è stato un pensatore di prim’ordine, un politico dotato di una visione nazionale e sociale congolese d’avanguardia, solo che nella sua impazienza di rivendicare un’indipendenza immediata, integrale e incondizionata del Congo, ha finito per non dare il tempo necessario al paese per costruire la struttura, politica, economica e militare di cui avrebbe avuto bisogno. Quanto a Mobutu, prima di trasformarsi negli anni Ottanta e Novanta in un dittatore sanguinario, è riuscito nell’arco di un decennio, tra il 1965 e il 1975, a realizzare ciò che l’Unione Europea cerca di fare senza successo da decenni: ha contribuito a creare un sentimento nazionale e un senso di appartenenza al paese che ha coinvolto tutti i congolesi.

Dagli anni Novanta, a partire dalla tragedia del Ruanda, si parla sempre più spesso per l’Africa di un ritorno dei «conflitti etnici». Che effetto fanno simili termini ad un cittadino del Belgio, un paese da sempre sull’orlo della spaccatura tra fiamminghi e valloni?

Il punto è proprio questo: se nel nuovo mondo globalizzato emergono delle divisioni su base, per così dire, comunitaria, in Europa dovrebbero incarnare la modernità, mentre invece in Africa sarebbero il frutto di una sorta di identità selvaggia che riemerge dalla notte dei tempi e che non potrà che condurci fino al fondo del Cuore di tenebra descritto da Joseph Conrad. In realtà, per quanto terribili e sanguinari siano i conflitti che sono emersi in Africa negli ultimi anni, e per quanto le forme che hanno assunto possono far pensare, come nel caso del Ruanda, a qualcosa di arcaico, i riferimenti identitari servono solo a celare le vere cause, tutte assoloutamente «moderne»: il sovrapopolamento, come accade nell’est del Congo, di alcune zone rurali e la conseguente lotta per la terra; l’enorme cricolazione delle armi pesanti e il moltiplicarsi del numero dei gruppi armati che cercano di dettare legge nel territorio di Stati praticamente falliti; una corruzione endemica e un capitalismo, questo sì selvaggio, che disumanizza i singoli e li spinge ad una guerra senza quartiere, gli uni contro gli altri.

Dopo la crisi politica che ha paralizzato il Belgio tra il 2010 e il 2011 lei ha pubblicato un pamphlet intitolato «Contre les élections» e, a proposito della situazione del Congo, come di altri paesi africani e del Medioriente, ha dichiarato che si dovrebbe puntare «alla democratizzazione di queste società, piuttosto che alla democrazia». È ostile alle elezioni?

Al contrario, è solo che sono convinto che l’Occidente soffra di una sorta di «fondamentalismo elettorale». Dagli anni Novanta, è in nome della democrazia e dei diritti dell’uomo che sono state condotte campagne militari e ogni sorta di ingerenza internazionale. Al fondo di tutto ciò c’è sempre questa idea che se si vota va tutto bene. È un illusione ipocrita che finge di ignorare che la democrazia si costruisce solo se ha delle basi solide in una società, basi economiche e sociali prima di tutto. Oggi però è sotto gli occhi di tutti come questa strategia sia fallita. In Congo, ancora nel 2011 Joseph Kabila ha dichiarato di essere stato rieletto, malgrado l’opposizione non smetta di denunciare ogni sorta di brogli. Il vero problema è che nel paese si svolgono regolarmente le elezioni presidenziali, ma dagli anni Cinquanta non si vota più per le amministrazioni locali, per le regioni e via dicendo.
Gli elettori scelgono un «capo» ogni quattro anni, punto e basta. Non c’è selezione della classe dirigente, né una vera democrazia consolidata. Per questo ritengo che si dovrebbe invece lavorare per favorire lo sviluppo di una stampa libera, di una coscienza critica, di un sistema educativo e di un’economia che offra risorse anche ai più deboli. Altrimenti le elezioni rischiano di trasformarsi in una specie di rito senza significato. Quanto al mio libro sulla situazione belga, mi sono limitato a suggerire che di fronte ad un sistema bloccato, o in mano ad élite politiche che non riescono a mettersi d’accordo, sarebbe meglio che il parlamento fosse nominato tirando a sorte piuttosto che attraverso un voto che ha mostrato di non poter cambiare nulla. Del resto, nell’antica Grecia, culla della democrazia, era così che ad Atene venivano nominati i responsabili dell’esercito piuttosto che delle casse pubbliche: tirando a sorte.