Il primo piano assegnato alla costruzione del testo, e il controllo capillare delle emozioni informano due recenti testimonianze sulla vita al tempo dei migranti, una scritta da Emmanuel Carrère – A Calais (Adelphi, traduzione di Lorenza di Lella e Maria Laura Vanorio, pp. 49, euro 7.00) – l’altra da Maylis de Kerangal, Lampedusa (ne parla l’articolo qui sotto): entrambe si sottraggono al reportage, proiettando sullo sfondo il movente della scrittura e privilegiando, invece, quel che si lascia intravedere dalla scelta di una prospettiva obliqua e del tutto parziale. A orientare il punto di vista è l’evidente intento di emendare dalla retorica un dramma che richiederebbe al lettore spazi di intervento, se non altro immaginativi, piuttosto che accensioni emozionali rapidamente estinguibili.
Dunque, Emmanuel Carrère, scrittore i cui romanzi sono sempre ancorati a dati della realtà storica, come nel Regno, o in Limonov, o a fatti di cronaca, come nell’Avversario, o dettati da esperienze affettive, come nel bellissimo Vite che non sono la mia, si avvia a Calais con una committenza del trimestrale francese «XXI» e da quel porto, che è il secondo al mondo per transito di passeggeri e luogo di grande concentrazione di profughi, richienti asilo, rifugiati, migranti, si propone di tornare con un resoconto che non parli di loro, bensì degli effetti del loro arrivo sui residenti, mentre sullo sfondo si evidenzia una città in clamoroso stato di dismissione.
Carrère prende alloggio all’Hôtel Meurice, ex stazione di posta ora decaduto ma un tempo residenza di lusso degli inglesi in vacanza, e lì trova a accoglierlo la lettera di una misteriosa Marguerite. Ben scritta, ottimamente argomentata e fieramente imperativa, la lettera comincia così: «No, lei no». Otto pagine – che si concludono con il pronostico di un fiasco – intendono ammonire l’ennesimo artista in cerca di speculazioni intellettuali sulla tragedia della città invasa dai migranti: «Lo sa, Carrère, che in tre anni passati in questo abisso sono stata contattata almeno una volta alla settimana da persone che arrivavano da fuori e che come lei volevano scrivere, filmare, raccontare al microfono quello che hanno visto, credendo forse di fare meglio degli altri, volendo sicuramente appagare l’imperioso bisogno di svolgere il proprio compitino? Calais è diventata uno zoo e io sono una di quelli che staccano i biglietti».
Se non gli fosse bastato l’intento di abdicare alle pretese dell’ennesimo reportage dai campi profughi, a dissuadere Carrère si rivela più che sufficiente la lettera di Marguerite, presenza non si sa se reale o inventata, ma che entrando e uscendo dal racconto con le sue parole via via ricapitolate alla mente dello scrittore, funziona come un elemento strategicamente cruciale all’organizzazione della trama.
Situata su una grande piana ventosa, la città di Calais usufruisce, nella sua architettura, di una impronta mediterranea che mal si concilia con il clima, scrive Carrère, che informato sui luoghi deputati alla convivialità li frequenta nell’intento di captare gli umori degli abitanti, ricavandone una conferma dello stereotipo secondo il quale la gente del Nord, a dispetto del clima scoraggiante, è ospitale e calorosa.
Tuttavia, il disagio è tangibile: la città appare sconvolta dalla presenza di milleottocento uomini del reparto antisommossa che controllano la zona dell’Eurotunnel e il porto, mentre subito fuori decine di camionette sorvegliano la più grande bidonville d’Europa. Nella Giungla, ossia nel regno dei migranti, Carrère si inoltra ricavandone impressioni di cui non trasmette una singola parola; riporta soltanto la conferma di quanto gli avevano detto: che in quel caos di insalubrità e di miseria, scandito da gesti di violenza senza pari, circola tuttavia «una straordinaria fame di vita», quella che ha portato tanti uomini e donne a affrontare i pericoli di un lungo viaggio, di cui Calais è solo una tappa. Ma la città dei merletti, che prima della guerra davano lavoro a circa ventimila persone e ora ne impiegano non più di quattrocento, non è preda esclusiva dei migranti: nella cosidetta zona di urbanizzazione prioritaria del Beau Marais il clima è ben più pericoloso ed è da qui, non a caso, che proviene più del cinquanta per cento dei voti che vanno al Front national.
Carrère raccoglie decine di dichiarazioni di avvenute violenze: a parlare sono «i Calesiani arabbiati», quelli che – aveva avvertito Marguerite nella sua lettera – quando si presentano «dicono prima il cognome poi il nome». Tutto viene annotato, metabolizzato, tradotto in scrittura. Poi Carrère costruisce il suo racconto, lo indirizza verso un climax che coincide con una precipitazione delle sconforto; ma i fatti gli forniranno una rivincita sul cedimento generale alla paura, e sarà in questa rivincita che l’autore troverà il sigillo del suo piccolo, esemplare saggio di scrittura.