Nessuna caratteristica di cui andare fiero, tratti del volto regolari, senza fascino e senza difetti, «taciturno, poco socievole»; famiglia borghese medio-alta, sufficienza nei risultati scolastici, condotta di vita coerente. Un giovane, in altre parole, dai «colori molto scialbi». Così è descritto – ma così soprattutto si si percepisce – Tazaki Tsukuru, il protagonista dell’ultimo romanzo del celebrato Murakami Haruki (Kyoto, 1949) apparso per Einaudi, L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio (traduzione di Antonietta Pastore, «Supercoralli», pp. 260, euro 20,00). Di fronte allo specchio, Tsukuru «si trovava irrimediabilmente noioso. Non si appassionava a nessuna forma d’arte, non aveva hobby o abilità particolari», si sentiva privo di personalità, tanto da essersi convinto che il suo ruolo fosse «quello del contenitore vuoto». Eppure, né il protagonista né la sua vita si possono inscrivere in una superficie davvero incolore: Tsukuru è figura problematica ben più sfaccettata di quanto egli stesso creda e la sua vita – la sua crescita – è segnata da un trauma che per sei mesi l’ha tenuto sull’orlo dell’abisso: un rifiuto corale le cui motivazioni e le cui conseguenze psicologiche e affettive continuano a sfuggirgli a distanza d’anni. È stato esiliato dal gruppo di amici di cui si sentiva organica e felicissima parte: cinque coetanei stretti dagli anni del liceo, tre ragazzi e due ragazze, tutti con la presenza di un colore nel cognome, tutti salvo Tsukuru. Proprio questa mancanza di colore nel cognome aveva fatto nascere in lui, fin dall’inizio, «un sottile senso di estraneità», presentimento che aveva trovato il suo adempimento nell’espulsione da quel gruppo straordinario, dotato di armonia perfetta. Sorta di pre-determinazione di destino racchiusa nel nome, un tema che nel romanzo ricorre spesso.

Tsukuru, scritto con l’ideogramma del verbo «costruire», è diventato ingegnere dopo essersi laureato a Tokyo, unico del gruppo ad aver lasciato il benessere ovattato di Nagoya, l’originaria città di provincia. Costruisce o restaura stazioni ferroviarie per le linee ad alta velocità, e in questo risponde compiutamente oltre che al nome impostogli dal padre, anche alla fascinazione subita fin dall’infanzia, quando «a stregarlo» erano non le locomotive e i binari dei trenini elettrici, ma «il modellino della stazione, una banalissima stazione dalla funzione meramente accessoria», di cui immaginava passeggeri, annunci, scambi. In questa singolare predilezione, che ha deciso corso di studi, partenza per Tokyo e lavoro – l’intero suo destino –, si possono ravvisare significati rivelatori: le stazioni sono le strutture in cui i treni arrivano, si fermano e ripartono (e dunque tramano aspettative), sono luoghi vitali e sovraffollati nel Giappone metropolitano, zone di attesa e di sospensione, di furti e smarrimenti, punti vulnerabili al terrorismo, come ha provato l’attentato della primavera 1995 alla metropolitana di Tokyo, in questo romanzo citato ma già da Murakami dolorosamente ripercorso nelle interviste ai sopravvissuti raccolte in Underground (Einaudi 2003 e 2011).

Altro nodo emblematico dell’Incolore Tazaki Tsukuru, semplice e denso di significati, è la similitudine tra la mano e il gruppo di cinque amici, un organismo perfetto come «le cinque dita della mano», ciascuna utile a se stessa e alle altre, in efficace armonia. Perturbante risulta allora, di riflesso, il ritrovamento di due dita in formalina smarrite/abbandonate proprio in una stazione ferroviaria, forse i doppi mignoli asportati chirurgicamente a uno sconosciuto per correggerne mani polidattiliche, anomalia che nel Medioevo poteva condurre al rogo come stigma di stregoneria.

Attraverso un flashback a più piani il romanzo rievoca la formazione del protagonista, il colpo inferto dagli amici a freddo e senza spiegazione, la sua prossimità alla morte nei sei mesi successivi, l’inizio della metamorfosi. Anni di pellegrinaggio, quaderni per pianoforte di Liszt investiti di particolare carico affettivo e Leitmotiv del romanzo, accompagnano tanto il pellegrinaggio di Tsukuru nei suoi più intimi frammenti di memoria e di coscienza, tanto il suo pellegrinaggio fisico, i viaggi intrapresi dopo sedici anni di silenzio per interrogare gli amici da cui fu respinto. Il desiderio di conoscersi, vivace ma sempre a rischio di delusione – «cercare di conoscere il proprio valore è come pesare qualcosa privi di un’unità di misura.

L’ago della bilancia non riesce a fermarsi con uno scatto netto in un punto preciso» –, il recupero del rimosso, la ricerca della verità e l’elaborazione del lutto sono i cardini di questo nuovo romanzo, e permettono di accostarlo a un’opera come Norwegian Wood (Einaudi 2006), del lontano 1987, di cui condivide lo strutturale carattere di Bildungsroman, l’attenzione alle amicizie tra adolescenti, la contiguità con la tragedia, lo scavo nella memoria. Ma rispetto a Norwegian Wood il nuovo romanzo ha struttura meno articolata, più scarna e cristallina, sempre vibrante, ma su toni più quieti e più immediati, non lontani dalle radici sentimentali di un romanzo del 1992, A sud del confine, a ovest del sole (Einaudi 2013), segnato anch’esso dall’interruzione di una intesa perfetta conosciuta nell’infanzia.

La sostanza dell’Incolore Tazaki Tsukuru è scopertamente emotiva, a volte accesa da breve lirismo, a volte pacata, riflessiva, a tratti addirittura esplicita, didascalica: «a unire il cuore delle persone non è soltanto la sintonia dei sentimenti. I cuori delle persone vengono uniti ancora più intimamente dalle ferite. Sofferenza con sofferenza. Fragilità con fragilità». È una sostanza morale, intima, sprofondata com’è in un ampio e variegato intreccio di sentimenti su cui spicca quello della perdita, della nostalgia emozionale e geografica: Le mal du pays, che degli Anni di pellegrinaggio di Liszt è il primo brano e il più evocato, incarna la nota dominante del romanzo, la malinconia, la tristezza che il paesaggio può infondere, e riaffiora dall’inizio alla fine del libro, come la Sinfonietta di Janácek ricorreva in punti chiave di 1Q84 (Einaudi 2011 e 2012)

L’orizzonte dell’Incolore Tazaki Tsukuru rimane nel nostro mondo – ove per nostro si intenda un mondo solo, non affiancato da dimensioni parallele o deviate su altri binari come in precedenti romanzi di Murakami, si pensi a 1Q84, «ramificazione» dell’anno 1984, con la sua seconda luna nel cielo, «un po’ deforme» e verdastra. Tuttavia certa enigmaticità e certi nuclei che sfuggono alla logica, permangono anche nell’Incolore Tazaki Tsukuru: la strana vicenda capitata in gioventù al padre dell’amico Haida, o il sogno erotico popolato e confuso, vivido e inquietante, fatto da Tsukuru. Da ciascuno promana una suggestione forte: del primo resta l’incontro con un pianista jazz che ha accettato di morire al posto di qualcun altro, e per questo, insieme al pegno di morte, ha acquisito la «capacità di vedere i colori delle persone», i loro aloni di luce, e insieme quella di percepire lo «sfondo reale» delle cose, la superficialità del mondo e della vita vissuta fino a quel momento. Del secondo restano flash ambigui ma molto toccanti, spie che qualcosa dal profondo occorre far riemergere. E saggiamente Tzukuru ascolta l’invito di Sara a indagare nel passato, a dispetto di scoperte dolorose: «non devi guardare quello che vuoi vedere, ma quello che devi vedere». L’imperativo comunica imposizione, non libera scelta, ma questa sola è la via che si può percorrere per acquistare la libertà personale e comprendere che «ogni cosa, soprattutto se importante,