«Lo Stato si impegna nella diffusione dei valori della moderazione e della tolleranza, nella protezione del sacro e nella proibizione di ogni offesa verso questo. Si impegna ugualmente alla proibizione e alla lotta contro gli appelli al Takfir (accuse di apostasia) e all’istigazione alla violenza e all’odio» Art.6 costituzione tunisina. Dustur, in italiano Costituzione, il documentario di Marco Santarelli su un raro tentativo di integrazione culturale, non poteva transitare sugli schermi del trentatreesimo Torino Film Festival in un momento storico più drammatico. In questo scorcio di secolo in cui la parola «nemico» ha acquisito significati drasticamente inediti per un’occidente da decenni adagiato su cuscini di certezze fragili e fallaci, in una fase in cui i concetti di paura reciproca, diversità e vendetta dominano la semiosfera globale, «il grande sistema», qui si porta sullo schermo un discorso sulle possibilità di una convivenza solidale che sappia prendere le mosse dalla reciproca differenza. Un film nemico della paura. Parla una realtà nuda in Dustur, svestita di qualsiasi orpello stilistico o estetico, entriamo insieme a Santarelli e al suo sguardo neutro all’interno del carcere Dozza di Bologna, nella cui biblioteca un gruppo di volontari e insegnanti, capeggiati da Don Ignazio, per lunghi anni missionario in medio oriente, propone a un gruppo di detenuti musulmani, uno studio comparativo che metta a confronto la nostra costituzione con quelle dei loro paesi di provenienza, con l’obiettivo di arrivare a scrivere una Costituzione Italiana autonoma, nuova, fatta dei desiderata e delle aspirazioni di questi uomini sradicati. «Chi conosce, chi non conosce…tutti siamo qua per conoscere, qualcuno conosce qualcosa, qualcun altro conosce qualcos’altro, siamo tutti qua per imparare» è una delle volontarie del corpo docenti, con il suo alto girocollo di lana rossa, a sintetizzare al meglio lo spirito che anima il gruppo di studio come il film. Un percorso all’insegna del reciproco scambio e del confronto, pensato per generare una conoscenza allargata, che sappia riempire i vuoti delle opinioni personali e collettive. Ne nasce un dibattito partecipato, un confronto aperto e paritario che investe principi fondativi del nostro concetto di Stato così come della Shari’a, tanto nella sua accezione di fonte del diritto quanto in quella di norma etica e comportamentale. Si cerca la ratio giuridica sottesa ai precetti legislativi nostrani per poterla raffrontare con quella che mutua le norme contenute nelle legislazioni dei paesi arabi, si arriva a ridiscutere la concezione stessa dell’individuo. Ecco che allora emerge un universo di «affinità e divergenze», cito Lindo Ferretti, di elementi comuni e relative diversità che, sviscerate nelle loro ragioni umane prima ancora che giuridiche o teologiche, diventano fondamento per la reciproca comprensione, avvicinano anziché distanziare. Santarelli intesse un disegno a ragnatela in cui questa linea guida primaria interseca i fili delle esistenze, delle visioni e di visioni individuali. Le situazioni personali, spesso, sono tutt’altro che semplici: «Io sono musulmano, prego, però tante cose non le so» ci dice uno dei ragazzi, barba curatissima e corta, «anche l’arabo non sono mai riuscito a impararlo come si deve» una liminalità doppia: giovani considerati troppo italiani per essere ritenuti arabi ma mai abbastanza italiani perché li si percepisca come tali. Durante il dibattito affiorano temi delicati come quello della sessualità tanto tra le mura del carcere quanto all’esterno, in un sistema culturale di cui si stenta a comprendere gli usi e costumi, affiorano le storie difficili di lavoro minorile, violenze e sfruttamento. Uno sguardo di mosca, una visione caleidoscopica che mostra le sfaccettature molteplici, le problematicità endogene ed esogene del tema immigrazione. Un caleidoscopio, dicevamo, di diversità sottili, che troppo spesso, forti della certezza della nostra supremazia culturale di ospitanti, tendiamo ad ignorare.
La narrazione alterna questi momenti «d’interno con sbarre» a scene tratte dal quotidiano di Samal, un ventiseienne di origine marocchina che terminata la sua pena detentiva sta affrontando un periodo di riabilitazione tra lavoro in fabbrica e studi giuridici. Una voglia di riscatto febbrile muove i passi e le parole di questo ex-pusher, che racconta con commozione la propria odissea criminale davanti a una platea di studenti italiani e non: «Guadagnavo un sacco di soldi, che però, essendo guadagnati molto facilmente per me non avevano molto valore, li vedevo solo come mezzi, mentre ora i soldi per me sono il tempo: cinquanta euro sono otto ore del mio lavoro, quei soldi che hai guadagnato sono la tua vita, era questo il concetto che non riuscivo ad afferrare». Brama di integrazione, difesa della propria identità culturale e religiosa, la storia di Samal dimostra che il recupero alla società, quella italiana intendo, e al suo quadro di valori, passa innanzitutto dallo studio, dalla conoscenza in generale, e dal recupero della propria cultura di appartenenza in particolare, dal suo riavvicinamento a quel Corano che per lunghi anni aveva ignorato. Poco alla volta, seguendo i vari incontri, attraverso le spiegazioni e le discussioni intavolate con i numerosi esperti di diritto, mediatori culturali, teologi e docenti vari che di volta in volta affiancano Don Ignazio, il senso profondo del nostro ordinamento, la bellezza dei suoi principi fondanti si dischiudono agli occhi dei ragazzi che fanno parte del gruppo e, di contro, attraverso le loro parole, a noi italiani è dato addentrarci, e forse comprendere un po’ meglio, quell’oscuro groviglio di precetti santi che è il loro modo di regolare le vite e la convivenza civile. Il grande giorno infine arriva e l’inconsueta assemblea costituente si riunisce per scrivere la sua costituzione liberata e interculturale. Samal rientra nell’istituto di pena da uomo libero per unirsi agli ex-compagni e a Don Ignazio. Intorno al tavolo della biblioteca del carcere Dozza il dibattito si accende di un fuoco che non brucia, semmai riscalda, ognuno cerca di tradurre in verbo la propria società ideale. L’aria si fa fitta di parole pesanti, si discute a viso aperto di libertà di pensiero e di culto, dell’indiscriminabilità dell’individuo per ragioni che riguardino la sua posizione sociale o religiosa, di diritto al lavoro. I due termini che si sentono nominare più spesso sono «dignità» e «rispetto» pronunciati, indifferentemente, in italiano, in tunisino, in marocchino ed egiziano e in una molteplicità di dialetti che non saprei nemmeno nominare. Si delinea una zona grigia, dove le differenze e le diffidenze magari non spariscono proprio, ma certamente si attenuano. Una cura contro le distopie di oggi, una fraternità sottopelle, che alligna al di sotto delle faziosità culturali e religiose. Un’utopia possibile? Un modello di reciprocità esportabile al di fuori delle spesse mura del carcere Doza? Forse, ma solo se gli italiani sapessero dimostrarsi aperti al dialogo interculturale e curiosi quanto questi che Santarelli ritrae, e se le genti del mondo islamico praticassero la stessa moderazione e la medesima volontà di comprensione della nostra cultura che anima i ragazzi del gruppo di Don Ignazio. Un documentario per immaginare un mondo migliore, che comunque in giorni come questi certo non guasta.