Per chi pensa al Medio Oriente come la terra del caos, l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti non farà che aggiungere confusione. Di materiale ce n’è: foriero di un riavvicinamento alla Russia del presidente Putin, è allo stesso tempo radicalmente contrario all’apertura all’Iran che con Mosca condivide la strategia siriana e uomini sul terreno; stretto tra la dichiarata volontà di ridurre le missioni all’estero ma anche di distruggere il terrorismo islamista, si trova con le truppe Usa presenti sui campi di battaglia iracheno e siriano e nei cieli di Yemen e Libia.

Proprio in Siria si gioca molta della futura strategia statunitense: un eventuale dialogo Casa Bianca-Cremlino potrebbe sparigliare le carte a favore di Damasco, già etichettato dal leader repubblicano come l’opzione “meno peggio” nella lotta al terrore. Tanto che ieri le più preoccupate erano le opposizioni siriane che temono una diminuzione delle armi che la generosa America gli ha finora girato: «Le cose diventeranno più complesse a causa delle dichiarazioni di Trump e le relazioni che ha con la Russia», il commento di Zakaria Malahfji, leader di Fastaqim.

Nelle stanze della diplomazia il clima è lo stesso: «Speriamo che la faccia di Donald Trump presidente sia totalmente diversa da quella di Donald Trump candidato», dice George Sabra, ex presidente della Coalizione Nazionale Siriana, ombrello dei gruppi di opposizione poi confluiti nell’Alto Comitato per i Negoziati.

Il voto americano arriva in un momento caldo per la Siria: ad Aleppo si continua a combattere e Mosca, dopo aver reiterato la tregua unilaterale, ha minacciato di riprendere i raid aerei contro le opposizioni e la controffensiva lanciata due settimane fa sui quartieri occidentali.

E dall’altra parte del confine c’è l’Iraq e la controffensiva su Mosul. Mentre sale a 42mila il numero degli sfollati, il governo di Baghdad si affretta a ribadire la collaborazione con gli Usa, considerandola ufficialmente in fieri viste le dichiarazioni di guerra mosse da Trump all’Isis. Ma è ovvia la speranza di chiudere il capitolo Mosul prima del suo ingresso nello Studio Ovale, semmai dovesse optare per il millantato taglio dei fondi all’esercito iracheno.

In tale contesto è impossibile, dunque, non guardare alla Turchia del presidente Erdogan che insieme all’egiziano al-Sisi ha già ricevuto l’endorsement dal candidato repubblicano e ora si aspetta un sostegno ancora più convinto. Leader che ha fatto dell’autoritarismo lo strumento di governo, è visto da Trump colonna contro l’instabilità. La narrativa dell’uomo forte. Ed infatti Erdogan e al-Sisi sono stati i primi a congratularsi con il vincitore.

Se il rapporto con il secondo potrebbe inficiare sulla vicina Libia dove il Cairo sostiene apertamente il parlamento ribelle di Tobruk a scapito di quello voluto dall’Onu, in Turchia si punta alla preda Gulen. Il premier turco Yildirim ha già ricordato che l’estradizione dell’imam è ancora in ballo, quella che Obama non ha voluto concedere senza prove concrete del suo coinvolgimento nel tentato golpe del 15 luglio.

Ma oltre al previsto appoggio alle politiche autoritarie di Erdogan in casa (che lo rafforzerebbe tra quella maggioranza silenziosa che taccia Washington di tradimento), il nuovo presidente dovrà muoversi anche nelle zone di aperto conflitto dove la Turchia è presente con truppe in chiave più anti-kurda che anti-Isis: il miliardario ha già parlato della necessità della zona cuscinetto che Ankara chiede da anni per infilarci i rifugiati siriani che nessuno vuole, tantomeno la sua islamofobia.