Ettore Scola che del Bifest (21-28 marzo) è l’autorevole presidente, è un regista che frequenta le sale, al contrario di altri suoi colleghi italiani e stranieri. La cosa che lo entusiasma di più è la grande partecipazione dei giovani che affollano dalle nove del mattino a notte fonda le sale del cinema Galleria e poi si fermano a parlare nelle zone circostanti. Per il giorno della sua Master Class al Petruzzelli, dopo la proiezione di Una giornata particolare non si trovano posti. Il suo umorismo investe i ricordi e le considerazioni personali, da ragazzo degli anni trenta che iniziò la sua strada nel cinema collaborando alle riviste umoristiche come il Marc’Aurelio (che, precisa, vendeva 500 mila copie) nell’Italia della ricostruzione. Lui scriveva le gag e le battute delle sceneggiature di Metz e Marchesi e fece ridere perfino Totò con il suo «la moria delle vacche come voi ben sapete» o «io Tarzan, tu Chita, lei bona».

Delle 75 sceneggiature scritte avrebbe voluto dirigere Io la conoscevo bene, Un americano a Roma, o Il sorpasso, ma, dice, gli mancava la malinconia di Pietrangeli o la grazia che del resto non voleva neanche avere, di Steno o Risi. «Con Un americano a Roma, dice, c’è stata l’esplosione di Sordi, questo pazzo. Era pazzo anche nella vita, provocatorio, si divertiva moltissimo a spaventare la gente, sul set dava fastidio a tutti i lavoratori, muoveva la scala agli elettricisti». Non sfuggono a Scola tutti gli aspetti umoristici riferiti a colleghi come ai suoi attori in pausa: Jack Lemmon «accanito facitore di cruciverba», Gassman che nelle pause scriveva su foglietti i futuri lavori teatrali e lui glieli nascondeva, Mastroianni con le tasche piene di gettoni perché stava sempre la telefono («non posso pensare cosa sarebbe stato al tempo dei telefonini») mentre Troisi, cantava con la sua bella voce Fenesta vascia una triste canzone del Cinquecento.

E poi, con perfetti tempi drammatici arriva al punto: «La mia generazione, dice, ha avuto persone che stimavamo, avremmo voluto essere come Steno, Risi, Pietrangeli, Fellini. La nuova generazione di registi non ha modelli. A chi si ispireranno? Il nostro paese era uscito da poco dalla guerra, dal nazismo, dal fascismo. Era un paese che amavamo. Oggi è difficile dire che si ama questo paese, i colpevoli sono difficili da individuare. Se c’è qualcuno che ruba è un ladro, invece qui ci sono responsabilità collettive. Siamo in un’Italia che è difficile da amare. Come si fa a fare un film se non hai un obiettivo, qualcuno da prendere di mira?» Scola qualcuno da prendere di mira lo ha sempre avuto, qualche volta ha fatto arrabbiare tutti, politici e intellettuali con La Terrazza e decise di non fare più film finché ci fosse stato Berlusconi. Alla sua uscita di scena nel 2013 ne ha poi realizzato uno magnifico, Che strano chiamarsi Federico sui giovani che erano stati lui e Fellini.

«Noi dobbiamo risalire a Berlinguer per avere qualcuno che ci soddisfi, lui aveva individuato la questione morale, ma andato via lui, rubano tutti, a qualunque posizione appartengano. I giovani registi sanno fare il loro lavoro, ma gli manca l’orizzonte. Noi avevamo uno sguardo comune e un paese che amavamo. Se non hai questo non nasce niente. Questo paese va cambiato, raddrizzato, se non lo fate voi non lo farà Renzi che ha altri obiettivi. Nei giovani risiede l’ultima speranza, non ho speranza né in Tsipras né nei nostri, voi dovete cambiare questa palude, noi abbiamo cambiato il paese dopo venti anni di fascismo. Non vi si chiede di prendere il fucile e andare in montagna, ma di avere idee ed entusiasmo».