«Muto. / Il fiato. / I polmoni si spengono. / Vedi il mondo uscire. / Finisci quel respiro. / Canto respiro. / Sei andato con la marea. E chiudi. Alla deriva. Occhi muti. Addio. Aaaaaaaaaaaaa. Amore mio. / Mio. Fratello no»: è uno dei momenti topici della scioccante opera prima di Eimear McBride, scrittrice irlandese nata a Liverpool nel 1976, A Girl is a Half-Formed Thing che ha collezionato in tre anni cinque premi letterari. Il libro esce ora in Italia nella superba traduzione di Riccardo Duranti, con il titolo Una ragazza lasciata a metà (Safarà editore, pp.264, euro 18). I detrattori di McBride, che sarà ospite al Pisa Book Festival (venerdì 11, alle ore 16), ne fanno derivare lo stile staccato, contrappuntistico, il continuo e ossessivo bordone sconnesso di monologhi interiori, a precedenti illustri quali Faulkner, Beckett e Joyce, quasi a volerne sottolineare la mancata originalità. Ma chi conosce i corsi e i ricorsi delle letterature sa anche che nella scrittura nulla si inventa e nulla si distrugge. Semplicemente, tutto cambia; e con il romanzo di McBride cambia il tracciato della letteratura irlandese contemporanea.

Molti suoi colleghi negli ultimi decenni si sono spesso concentrati sul tema pervasivo delle famiglie disfunzionali, con il corollario delle solite piaghe sociali quali la droga e l’alcol, la prostituzione e gli abusi sui minori. Anche McBride ci presenta un quadretto familiare tutt’altro che rassicurante, ma non indulge nelle facili semplificazioni che descrivono una società, quella irlandese, allo sbaraglio, una volta venute meno le certezze rappresentate dalla religione e dal legame con la tradizione. Nell’Irlanda post-boom economico, in cui forze latenti sono esplose fino a scardinarne le fondamenta sociali lasciando apparentemente solo macerie, questa scrittrice poco più che quarantenne ha il coraggio di affrontare temi estremamente scottanti, con la potenza di uno stile introspettivo mai consolatorio, e anzi spavaldo e ribelle: «In verità sei più aguzza d’un dente di serpente figlia ingrata. Sei figlia di Gesù. Neanche per sogno. Sì che lo sei…».

Nel romanzo di McBride le voci nei dialoghi si confondono come nei migliori libri di Saramago; il discorso diretto si mescola al flusso di coscienza, le identità appaiono incerte e fluide rendendo difficile, come ha notato James Wood, la lettura; ma poiché questa scrittura aderisce alla vita è un’illusione aspettarsi che la semplicità possa farne parte. McBride punta al ritrarre squarci di esistenza in senso totale, secondo una maniera che include il visibile e il non-veduto, mettendo dunque sullo stesso piano appercezione e rappresentazione.

Non mancano (come potrebbero?) in questo stile dinamico e umorale, i tributi alla grande letteratura della mente à la Joyce («e poi mangia i noodles al curry la notte tardi e mi costringe a lavargli i piatti c’è qualcosa che non va è così ingiusto e io ho sempre fatto il meglio per voi e peggio di tutto si rifiuta di dire le preghiere…»). Ma simili ammiccamenti non sono il fulcro dello stile di McBride, che invece, a ben vedere, è più vicino a quello di un altro gigante, dimenticato, delle lettere inglesi moderne, BS Johnson, che nel suo In balia di una sorte avversa, ha affrontato pressoché gli stessi temi del romanzo di McBride. Ce ne accorgiamo a metà del testo, quando un momento epifanico («Quella stazione la conosco. È qui. Sì sto va bene») è tratto di peso dal capolavoro dello scrittore inglese, morto probabilmente suicida nel novembre del 1973.

L’opera di McBride è tuttavia anche un romanzo di formazione, per quanto interrotta. È il ripercorrere di un cammino che porta una bambina a emanciparsi gradualmente dal proprio oppressivo nido familiare, passando per un’adolescenza tumultuosa in cui uno zio abusa di lei vedendola quasi consenziente, fino a ritrovarsi una donna a metà, in spazi non calcolati, inattesi, pieni di violenza e di cieca animalità. Spazi che la attraggono e irretiscono allo stesso tempo, non consentendole vie di fuga se non attraverso il conflitto, il dolore, anche fisico, ma principalmente mentale.

Le descrizioni, talvolta sconcertanti, di questo percorso di ricerca del dolore creduto salvifico, rimandano a una narrativa contemporanea concentrata sul soggetto quale prisma di rifrazione attraverso cui percepire la realtà nei suoi aspetti talvolta più crudi. Come se l’esperienza non potesse venire ritratta in alcun modo vero se non gettando nel dimenticatoio tutti gli stilemi del realismo; a partire dalla posizione del narratore, che in questo libro è tutt’uno, corpo e anima, con la storia narrata. Il rifiuto di qualunque prospettiva di tipo realistico nel senso tradizionale del termine si unisce a una sferzante critica sociale diretta al mondo dell’Irlanda rurale, già messo alla berlina, con modi e parole diverse, da tanti scrittori che l’hanno preceduta, da McGahern a Kavanagh, da Edna O’Brien a Patrick McCabe.

Il valore aggiunto nella scrittura di McBride sta nella tentazione di giocare il rischio della sfrontatezza, della sfida ai tabù, che facilmente si trasforma, in tanti narratori più convenzionali, nell’uso e nell’abuso di cliché. In questo romanzo anche le scene più violente e perturbanti non nascono dalla ricerca del piacere o dalla scoperta del sé attraverso lo scandaglio della corporeità: sono piuttosto pratiche di dolore autoinflitte per sfuggire, sapendo di non poterci riuscire, a scenari asfissianti e moralmente stantii. E si risolvono anche in una denuncia, con uno stile a suo modo unico, di silenzi e amnesie di una società ancora in preda alla tentazione di evitare nel futuro i fantasmi del suo passato.