C’era grande attesa per il solenne discorso di Giorgio Napolitano «ai rappresentanti delle istituzioni, delle forze politiche e della società civile», stavolta davvero l’ultima occasione per un presidente che, due anni fa, nella stessa occasione si congedato, per essere poi richiamato in servizio tre mesi dopo. Nel riferirlo si può partire da quello che non è stato. Non è stato un discorso nel solco degli ultimi interventi di Napolitano, quando qualche accenno di distanza dalle più spericolate uscite del governo si era pur colto. Al contrario, nel testo letto dal capo dello stato ieri pomeriggio – seduto al centro tra il presidente del senato e la presidente della camera, con Matteo Renzi all’angolo destro del tavolo, immobile nell’ascolto – c’è stato spazio solo per i più grandi elogi al governo. E non è stato nemmeno il discorso dell’annunciato addio, evento ormai tanto certo da poter restare implicito, un modo questo per non alimentare la girandola delle previsioni sulla data delle dimissioni. Deciderà lui, l’ha detto, deciderà presto, ma non è detto che abbia già deciso visto che gennaio è un mese importante per le riforme costituzionali e (soprattutto) per la legge elettorale: magari il presidente vorrà aspettare appena qualche giorno in più per non intralciare il lavoro delle aule parlamentari.

Salone dei corazzieri, cinquecento invitati, centrotrentadue auto blu stipate nella piazza del Quirinale, la gerarchia della Repubblica scorre nell’ordine di seduta; governo avanti e strane coppie che si formano dietro: Bersani discute con l’ex presidente della Consulta Tesauro, D’Alema si ritrova accanto Fini, Veltroni con Letta, Marino viene adesso salutato con trasporto da quelli del Pd, il procuratore Pignatone resta solo in fondo in fondo.
Napolitano mette in fila le cento ragioni per le quali essere grati a Renzi. Ha risolto «in prima persona» almeno 40 crisi aziendali «salvaguardando migliaia di posti di lavoro». Grazie al «forte consenso» delle elezioni di maggio ha «garantito ascolto e autorità all’Italia in Europa», come si è visto «nella composizione e nella guida della nuova commissione». E poi «dinamismo», «volontà riformatrice», «determinazione politica e istituzionale». Sul Jobs act tutto bene, cioè male per i sindacati ai quali si chiede «rispetto delle prerogative del governo e del parlamento senza improprie e devianti commistioni». Susanna Camusso incassa, e se Renzi la saluta con cordialità e solo per annunciarle che «il 24 facciamo i decreti attuativi».

Il fatto stesso che l’urgenza delle riforme costituzionali e di una nuova legge elettorale siano al centro del discorso di natale per il nono anno consecutivo dà la misura della sconfitta del presidente, che quest’anno però ha ragioni per non demordere. Non raccomanda più da tempo riforme limitate e circoscritte, come nei primi anni quando il referendum popolare aveva appena bocciato la grande riforma berlusconiana e la legge elettorale «porcata» era nuova di zecca. Né insiste più sull’equilibrio dei poteri e sui «pesi e contrappesi» indispensabili, non pensa più che la priorità sia la riforma della giustizia, non dice una parola sulle carceri. Adesso il suo obiettivo sono le minoranze che frenano la riscrittura della Costituzione e, soprattutto, la minoranza Pd. «Il superamento del bicameralismo paritario non è un tic da irrefrenabili rottamatori o da vecchi cultori di controversie costituzionali», dice il capo dello stato, replicando Renzi nel dipingere come frenatori gli avversari, anche quando propongono riforme più radicali (monocameralismo) e più equilibrate. L’equilibrio che preoccupa Napolitano è un altro: attacca le «spregiudicate tecniche emendative» che colpiscono «la coerenza sistematica della riforma». Peccato che quella coerenza non ci sia, e che gli «spregiudicati» emendamenti vengano rifiutati dal governo non perché illogici – come potrebbe esserlo sottrarre i senatori a vita al senato delle autonomie locali – ma perché fanno perdere tempo.

La nota dolente per il governo arriva in coda di discorso, ma ha ormai – con il presidente sulla soglia delle dimissioni – il peso limitato di una raccomandazione. «Se e quando e come si possa o si voglia puntare a elezioni anticipate» sono solo «discussioni che chiamerei ipotetiche» che «sottraggono tempo e inchiostro all’esame dei problemi reali», ammonisce Napolitano. La «continuità istituzionale» è il più forte e concreto lascito del presidente, quel rifiuto fino all’ultimo delle elezioni anticipate che è stato la regola del novennato. L’ha difesa contro tutto e tutti, nel 2010 alla prima crisi di Berlusconi, nel 2011 nel passaggio a Monti e quest’anno nell’approdo a Renzi. Al quale chiede di attenersi al dogma.

Pura retorica comunista, il massimo degli elogi prepara l’avvertimento: starà a Renzi decidere se seguirlo. E di avvertimento se ne scorge un’altro, quando parlando del ruolo da se stesso svolto, dunque approssimando l’identikit del suo successore, Napolitano chiede «prove serie di continuità nel cambiamento». Serve una figura che stia nel nuovo e che sappia del vecchio, una che «anche i nostri amici in Europa si attendono». L’unico citato in tutto il discorso, per il suo «valore» e la sua «affidabilità», è Pier Carlo Padoan.