All’ingresso ci accoglie una cornice vuota posata per terra. Una cornice abbastanza ordinaria con un cartellino e tanto di numero d’inventario: chissà se suo o dell’opera che conteneva e che oggi è un’opera assente. Le misure sono 68 per 57, cioè quelle del capolavoro scomparso di Van Gogh, il Ritratto del dottor Gachet. Era il gioiello dello Städel Museum di Francoforte, prima che nel 1937 i nazisti lo prelevassero da quella cornice, come espressione di arte degenerata. Finì nella collezione di Hermann Göring, prima di essere venduto a un collezionista ebreo che lo portò in America. Lì gli eredi lo misero all’asta. Il 15 maggio 1990 fu battuto con un prezzo base di 20 milioni di dollari. In pochi minuti raggiunse gli 85, battendo ogni record. Lo aveva comperato un miliardario giapponese, proprietario di grandi cartiere. Da allora se ne sono perse le tracce e in compenso sul destino di quel quadro sono cresciute le leggende. Per cui non ci resta che quella cornice che oggi incornicia un vuoto.
È una delle tante variabili di «immagini rubate» attorno alle quali Thomas Demand ha costruito il percorso di una mostra insolita e geniale nella Galleria Nord della Fondazione Prada (L’image volée, fino al 28 agosto). Demand è un artista avvezzo a questi doppi e tripli giochi linguistici che stordiscono e cooptano il visitatore. In mostra Demand è presente, oltre che in qualità di regista e curatore, anche con una sua opera. Si intitola Vault (2012) e ricostruisce il magazzino del Wildenstein Institute di Parigi, dove erano state ritrovate numerose opere che si credevano disperse, perché sottratte a una famiglia ebrea durante la guerra. Demand al solito procede ricostruendo il contesto con precisissimi modellini di carta di ogni oggetto e poi fotografando il tutto. L’effetto è straniante: perché i quadri incartati e appoggiati ai muri dovrebbero essere immagini ritrovate; invece percepiamo che, girando quei modellini così aderenti alla realtà, non troveremmo nulla.
Il percorso immaginato da Demand moltiplica a ogni passaggio quella dimensione spiazzante, al punto da far pensare che più che una mostra l’artista tedesco abbia allestito il set di una propria opera gigantesca e complessa, in cui, coerentemente con la sua poetica, continua a sottrarci certezze e punti di riferimento. Ad accrescere questa sensazione di trovarci su terreni mobili ci pensa poi l’allestimento fluido che Demand ha affidato a Manfred Pernice, tedesco pure lui, scultore di ambienti, abile a costruire insiemi di caos organizzato. Ogni passaggio cela un raggiro. E ogni raggiro non è mai uguale al precedente.
L’idea non è quella di isolare casi più o meno patologici di furto di immagini, ma di dimostrare che in fondo tutta la storia dell’arte possa essere letta come una sequenza di immagini a vario modo rubate. «Ognuno di noi vive sulle spalle degli altri, mi disse una volta un famoso storico dell’arte», racconta Demand in un breve dialogo con Manfred Pernice pubblicato in catalogo. Lo studio dell’artista non è mai vuoto e la tela non è mai bianca.
Il percorso è stato suddiviso in tre sezioni: Furto vero e proprio; Frode iconografica; Immagini che rubano. Tre sezioni in cui cambiano attori e destinatari ma dove resta costante il tema di un’azione che sembra essere linfa del processo artistico. Il sottrarre immagini non è un agire fuori dalle regole, ma è la regola, più o meno dichiarata, più o meno ammessa: tanto che si potrebbe suggerire ai visitatori un’appendice con visita alla sala XXIV di Brera, dove in queste settimane va in scena il grande plagio di Raffaello ai danni del vecchio Perugino, per lo Sposalizio della Vergine… Ma come scriveva T. S. Eliot, «i poeti immaturi imitano, i poeti maturi rubano».
Il disegno di Thomas Demand, ovviamente, va aldilà del semplice meccanismo delle repliche, e risulta affascinante perché si mette alla ricerca di continui slittamenti e detournement. Ogni sottrazione di immagine comporta un’azione che sposta l’immagine in un campo imprevisto; un’azione capace di suggerire o creare una narrazione. Se la cornice vuota di Van Gogh rimanda alle straordinarie vicissitudini di quel capolavoro, Sophie Calle fa rivivere il ritratto di Francis Bacon dipinto da Lucian Freud e rubato alla Neue Nationalgalerie di Berlino (ma il quadro era di proprietà della Tate) nel 1988, incorniciando le parole dei custodi che lo descrivono sulla base della loro memoria visiva. Un furto è evocato anche nel poster che John Baldessari ha immaginato per la mostra: quello di cinque opere alla Pinacothèque de Paris nel 2010. Tra queste un Picasso. Proprio Picasso, che a sua volta si era reso protagonista inconsapevole di un incredibile furto su commissione di due sculture iberiche arcaiche al Louvre, che riteneva importanti nel laboratorio delle Demoiselles d’Avignon. Un auto-furto è invece quello denunciato nel 1991 da Maurizio Cattelan, in crisi creativa alla vigilia di una mostra; denunciò la sparizione di una propria opera intitolata, guarda caso, Invisibile: la denuncia incorniciata ed esposta doveva giustificare l’assenza dell’opera che non esisteva. In realtà finì con il rimpiazzarla: l’opera era lei.
A volte, invece del furto, assistiamo a un cambio di destinazione d’uso: è quello che Martin Kippenberger attua su un dipinto monocromo grigio di Gerhard Richter nel 1987. La tavola, montata su gambe metalliche, viene trasformata in tavolino. Oggi, date le valutazioni che le opere di Richter hanno raggiunto, è messo sotto teca, accentuando l’ambiguità: l’opera è di Kippenberger, ma il valore aggiunto economico lo garantisce Richter.
Non sono sempre giochi quelli a cui assistiamo. La parete che presenta le tele mutilate dei volti di Francis Bacon è di una folgorante drammaticità, grazie anche alla scelta di Pernice di appenderle su parete bianchissima sotto luci da sala operatoria. Sono alcune delle tele, tutte rigorosamente 36,5 per 30,5 cm, ritrovate nello studio, leggendariamente caotico, del grande artista inglese. Le aveva «biffate» tagliando i volti per evitare che venissero messe in circolazione dopo la sua morte. Ma la scelta di conservarle fa scattare involontariamente il senso potente di un’assenza, di un’immagine che c’era e che è stata sottratta al mondo.
Quello de L’image volée è un percorso in cui il visitatore è sempre più chiamato in gioco, fino a diventare lui stesso immagine, cioè «oggetto» dell’esposizione. Accade nella terza sezione, ospitata negli spazi sotterranei, la più compatta e forte della mostra. Spionaggio e guardonismo fanno da filo conduttore. Mentre all’ingresso osserviamo un’opera di Baldessari «rubata» da Holbein, una telecamera che non vediamo ci riprende, e la nostra immagine rimbalza su uno schermo nella grande sala contigua. Qui, in un’atmosfera un po’ claustrofobica, si racconta di obiettivi nascosti, di cineprese che inseguono il dettaglio della valigetta atomica di Bush, di paparazzate estreme come quella di Max Priester e Willy Wilcke che fotografarono un Bismarck disfatto sul letto di morte, truccando l’ora della sveglia, per far credere di aver scattato poco dopo il suo ultimo respiro.
Alla fine, sul fondo cieco della sala, sono stati schierati una serie di dispositivi da spionaggio del blocco orientale usati durante la guerra fredda. Demand li ha scovati al Wende Museum in California, ne ha selezionati 17 esponendoli con un allestimento commerciale. Per l’occasione li ha anche fatti restaurare, in modo che se venissero accesi potrebbero ancora funzionare. Chiusura inquietante ed emblematicamente cieca: anche noi siamo finiti in quel cul de sac, pronti a essere catturati dentro quel rimbalzo imprevedibile delle immagini.