Non sono i tappeti volanti con cui Luigi Ontani fantasticava, negli anni Settanta, su un possibile altrove, puntando verso un Oriente solo in parte edulcorato. Né quelli visionari di Emilio Leofreddi, pagine di un diario geo-politico sulla scia di quelli firmati Alighiero e Boetti. Piuttosto, i tappeti esposti nella collettiva Too early, Too late. Middle East and Modernity curata da Marco Scotini alla Pinacoteca Nazionale di Bologna (fino al 12 aprile), di cui identifichiamo la natura – seppure mediata dall’interpretazione artistica – sono degli oggetti che fanno stare con i piedi ben piantati per terra.

Già il titolo della mostra rimanda esplicitamente all’area mediorientale: in particolare Scotini, con la consulenza di Lorenzo Paini, cita il film Trop tôt/Trop tard (1981) dei cineasti francesi Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, in cui vengono ridefiniti i confini del tempo storico, in termine di paesaggio e rispetto la connessione della gente che lo vive, mettendo a confronto le lotte contadine della Francia del 1789 e quelle dell’Egitto del 1952. Neanche dieci anni dopo la rivoluzione francese, Napoleone Bonaparte veniva spinto dal Direttorio alla conquista dell’Egitto, mossa tattica che avrebbe dovuto contrastare il dominio britannico nelle Indie Orientali. A partire da quell’epoca si definisce l’«orientalismo», che non è altro che una finzione. O meglio una proiezione manipolativa delle aspettative dell’occidente nei confronti di una cultura che non gli apparteneva. La manipolazione, del resto, sembra essere il fil rouge che attraversa molte opere della mostra bolognese: certamente quelle in cui riconosciamo la declinazione del tappeto. A parte l’installazione di Hiwa K (Sulaymaniyah 1975, vive a Berlino), For a Few Socks of Marbles (2012) – l’artista iracheno che nel 2012 è stato in residenza al Macro – che vede l’impiego anche di due tappeti di lana, le opere più «corrosive» sono decisamente quelle di Mona Hatoum (Beirut 1952, vive a Londra) e Ariel Schlesinger (Gerusalemme 1980, vive tra Berlino e New York). Due punti di vista diversi sull’idea di catastrofe incombente.

In Bukhara (multicoloured) e Afghan (red and orange), entrambi del 2008, l’artista libanese di origine palestinese, con quella vena ironica che attraversa tutto il suo lavoro, ridefinisce i confini geografici traducendo l’idea di negativo/positivo. I tappeti di recupero diventano carte geografiche in cui i paesi sono definiti dalla mancanza della trama. Un vuoto «organico», come la scia concreta del passaggio di una nuvola di tarme, mentre i mari e gli oceani appaiono in positivo. Minacce che arrivano indifferentemente sia dall’esterno che dall’interno.

Giocata su imprevisto e paradosso anche Untitled (Burnt carpet) (2014), l’opera di Schlesinger. La sua potenza è affidata al dramma che la accompagna. Nel caso di quest’opera che fa parte della serie dei tappeti bruciati del Turkmenistan, Schlesinger parte dalla sua esperienza di visitatore del Pergamon Museum di Berlino, dove ha modo di osservare i danni subìti da un manufatto del XVI secolo durante un grave incendio avvenuto nei depositi del museo nel 1945, negli ultimi giorni di guerra. Sul tappeto, che in quel momento era arrotolato, le fiamme hanno lasciato cicatrici indelebili, sopravvissute persino al restauro. «Mi affascinava l’idea che, da un lato, un oggetto aveva vissuto un disastro – afferma il giovane artista israeliano – ma, dall’altro, il disastro aveva anche creato la bellezza».