Il commento più efficace viene dal Financial Times del 2 agosto: se Berlusconi avesse «any shred of honour» (un briciolo di onore) si dimetterebbe dal Senato oggi stesso. Certo, così accadrebbe in Gran Bretagna, negli Stati Uniti, o qualunque altro paese di democrazia avanzata. E anche per l’art. 54 della Costituzione le funzioni pubbliche si devono adempiere con «disciplina e onore». Quel che il giornale inglese pietosamente non dice è che se il partito di Berlusconi avesse un briciolo di onore l’avrebbe già sostituito, e che se questo paese in una parte non piccola avesse un briciolo di onore avrebbe smesso da tempo di votare lui e il suo partito. O dobbiamo ritenere che in politica la parola onore trovi l’ultimo sinonimo nel voto popolare?

Paradossalmente, una mancanza di onore fa chiarezza: per il Pdl e il suo leader, solo una riforma davvero conta. È quella della giustizia, e non perché la si vuole degna di un paese moderno e civile. Al contrario. Perché si vuole quel che andrebbe bene in una repubblica delle banane, o un’antica satrapia. Il Pdl condiziona il governo a una soluzione «politica» per il leader condannato. E Berlusconi valuta se gli conviene andare al voto da martire. Non sono percorribili la grazia, l’amnistia o l’indulto. Per il decreto legislativo 235/2012 Berlusconi è incandidabile e non può «comunque ricoprire la carica di deputato e di senatore». E qui va ricordato che per l’art. 51 Cost, si accede alle cariche elettive secondo i requisiti stabiliti dalla legge. Dobbiamo forse temere che la strana maggioranza ci porti all’ennesima legge ad personam?

Già la Bicamerale D’Alema naufragò sulla giustizia, proprio per mano di Berlusconi. Fini avrebbe fatto carte false per essere tra i padri fondatori della nuova Repubblica, ma poi cedette. E solo per uno schermo verbale Berlusconi attaccò la proposta della Commissione sul semipresidenzialismo, che pure i suoi avevano voluto e approvato (Camera, 27 maggio 1998). La vera questione era tutt’altra: appunto, la giustizia.

Ed è sempre stata la giustizia. Ricordiamo alcuni passaggi, a firma centrodestra. La legge 251/2004, che tagliava i tempi della prescrizione (cd ex-Cirielli). Poi i tentativi di abbreviare ancora la prescrizione (XIV Leg., AS 2567: cd prescrizione breve) o allungare i tempi dei processi (XIV Leg., AC 3137: cd processo lungo). Ben due leggi sull’immunità delle alte cariche dello Stato: la 140/2003 (lodo Schifani) e la 124/2008 (lodo Alfano). Entrambe dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale, con sentenze 24/2004 e 262/2009. Una proposta di «lodo costituzionale» (XIV Leg., AS 2180) volta a superare le pronunce della Corte. Poi, la legge 51/2010 sul legittimo impedimento, per consentire al premier e ai ministri di sottrarsi alle udienze sostanzialmente ad libitum, e fino a sei mesi. Ci provò Brancher, costretto poi alle dimissioni. La Corte costituzionale demolì il testo con la sent. 23/2011. Ancora, Berlusconi premier ha tentato di sfruttare come impedimento le convocazioni del consiglio dei ministri. Ne è sorto un conflitto tra poteri, risolto dalla Corte in favore della magistratura con sent. 168/2013.
Oltre le riforme à la carte, è arrivata anche una proposta di riforma «epocale» della giustizia (XVI Leg., AC 4275). Ampio il richiamo ai lavori della Costituente, ma non a caso per riprendere soluzioni là bocciate. La questione è attualissima. Per dirne una, se per una scelta in chiave di semipresidenzialismo si dovesse cambiare la presidenza del Csm, si riaprirebbe il dibattito che pure in Costituente ci fu sul ministro della giustizia nell’organo di autogoverno? E per quale soluzione?

Leggi, proposte, emendamenti, pronunce della Corte costituzionale: una storia lunghissima, che prova oltre ogni ragionevole dubbio la commistione tra il Berlusconi imputato e il Berlusconi leader e uomo di governo. Ora, dopo una sentenza definitiva, Napolitano suggerisce una pausa di riflessione, il M5S gli chiede un passo indietro, e un alto magistrato rilascia un’intervista assolutamente inopportuna. Se c’è un momento in cui è meglio non parlare affatto di giustizia, è questo.

Un consiglio è d’obbligo. Chi vuole a qualsiasi livello chiedere o promettere riforme – in specie della giustizia, ma non solo – dica sempre e contestualmente quali, come, e perché. Per una parte del paese la parola riforma induce ormai di per sé diffidenza, sospetto, ripulsa, non perché ci sia un popolo di ottusi conservatori ciechi alla innovazione, ma perché si prefigura un attacco a valori fondamentali in cui si crede. La parola riforma oggi divide, non unisce. E chi la usa per ciò solo si schiera, non rappresenta l’unità o il tutto. Forse non è giusto, perché se ne stravolge così il significato e l’etimo. Ma la politica non si fa con il vocabolario.