L’incontro con Bernard Stiegler è avvenuto nella bella sede dell’Istituto svizzero romano, in occasione del convegno coordinato da Pietro Montani sull’immaginazione interattiva. Stiegler è filosofo e uomo d’azione. Crede che la filosofia sia una strategia politica e che il suo oggetto principale sia una riflessione sul presente, cioè l’economia e soprattutto la tecnologia. I suoi riferimenti teorici vanno da Derrida, di cui è stato allievo, a Leroi-Gourhan paleoantropologo francese, da Simondon, teorico dell’innovazione creatrice, al dibattito marxista e post marxista francese e internazionale. Studia Foucault e Nietzsche, ma non disdegna giuristi, economisti, neuropsicologi.

Stiegler si oppone alla sofistica, cioè a una filosofia come discorso funzionale alla dominazione, lotta contro l’automazione che proletarizza i lavoratori, compresi i lavori intellettuali, e vuole sostenere il sapere come novità imprevista, variabilità e originalità. Rimprovera alla sinistra di aver lasciato la tecnologia in balia di modelli neoliberisti. La tecnologia è un pharmakon, può essere veleno o rimedio, dipende dalla capacità che abbiamo di costruire intorno ad essa la conoscenza che libera dalla schiavitù della subalternità al capitalismo delle piattaforme digitali (Google, Apple, Amazon, Facebook…). È impossibile rifiutare l’estroflessione della nostra memoria senza cancellare quello che siamo.

Di Marx critica la scelta della dialettica, perché nega morte ed entropia. Ogni processo produttivo distrugge risorse che non possono essere riportate in vita. Suggerisce la necessità di costruire una bioeconomia della tecnica. Il suo obiettivo è riattivare le forze della sinistra per sostenere la différance di Derrida, e applicarla alla tutela della biodiversità dell’intelligenza umana, della sua capacità di eccezione continua dal sapere normale, della sua imprevedibilità, per battere la governamentalità degli algoritmi che rende scontati comportamenti e desideri.

Secondo il suo pensiero l’identità dell’essere umano è costituita dalle tecnologie che sa inventare. Ci può spiegare meglio?
La teoria che André Leroi-Gourhan chiama ominizzazione si basa sull’idea che l’essere umano sia incompiuto – oggi diremmo neotenico – e che non possa vivere senza organi artificiali che gli sono consustanziali, che lo costituiscono a tutti gli effetti. Una cosa paradossale perché stiamo vivendo un potenziale divorzio tra gli organi artificiali e esseri umani.
Dall’uomo di Neanderthal in poi, seguendo l’indicazione di Leroi-Gourhan, l’unità dell’essere umano è sottoposta al bisogno dell’esteriorizzazione delle sue facoltà per potersi difendere. Ci sono altri studiosi che confermano questa teoria. Mi riferisco, per esempio, ai nuovi antropologi americani e al matematico rumeno, emigrato negli Stati Uniti, Nicholas Georgescu-Roegen, allievo di Joseph Schumpeter che si è interessato di bioeconomia, andando oltre il suo maestro. Secondo lo studioso rumeno è necessario integrare nell’economia le leggi della termodinamica, seguendo il principio della dissipazione di energia, cioè dell’entropia.

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Una delle caratteristiche particolari della sua filosofia è l’interesse per la tecnologia in chiave politica. Da cosa dipende questa centralità?
La filosofia si deve occupare della tecnica perché è prima di tutto politica, serve a lottare contro i sofisti, quelle persone che ingannano la società e lo fanno per esercitare un potere. Seguo la posizione di Socrate, anche se lui aveva degli amici sofisti, come Protagora. Non li considerava nemici ma pensava potessero nuocere alla società.

Lei si definirebbe marxista?
Mi definisco post marxista. Marx e Engels combattono l’idealismo, un tipo di dogmatismo che sostiene esistano delle verità eterne, condiviso da Hegel. Secondo loro questo è un modo per la filosofia di mettersi al servizio di una classe dominante che la sfrutta per razionalizzare (nel senso negativo di giustificare) una dominazione. Nell’Ideologia Tedesca Marx e di Engels sostengono che una vera filosofia dialettica debba essere materialista: gli esseri umani sono «exosomatici», utilizzano dei supporti esterni al corpo. L’uomo produce i suoi organi. Marx pensava all’antropologia come a un’organologia. Una storia degli organi artificiali, delle tecnologie e di come vengono usate secondo logiche di dominazione.

In che senso la tecnologia è un «pharmakon»?
Da quando ho fondato con altri colleghi Ars Industrialis – associazione di filosofi, economisti, architetti, scienziati, militanti ecologisti, madri di famiglia, disoccupati e perfino gente di destra – sostengo che il marxismo non debba lasciare al capitalismo consumistico lo sviluppo di modelli tecnologici, che avvelenano il pianeta. L’obiettivo del progetto è sviluppare una «farmacologia». Marx non è abbastanza chiaro sull’ambivalenza della tecnologia. È per questo che si deve andare al di là di Marx, ma sempre passando per Marx, superando la posizione di Toni Negri che scrive Marx oltre Marx: questo vale in particolare sulla tecnologia come pharmakon nel rapporto tra lavoratori e macchine.
La tecnologia è insieme veleno e rimedio; lo sostiene Aby Warburg, lo afferma Socrate. Può portare alla distruzione della società e permettere la presa di controllo da parte di persone che ne hanno l’egemonia. È quello che sta accadendo nella Silicon Valley. Ma nello stesso tempo può liberare l’uomo perché sviluppa nuovo sapere, come dice anche Marx nel Manifesto del partito comunista. Hegel, nella dialettica servo-padrone, afferma che il servo, utilizzando la tecnica produce sapere, sottomettendo così il padrone. Marx condivide, ma va oltre. Osserva che nel capitalismo industriale, con lo sviluppo della tecnologia delle macchine, l’operaio è un servo che perde il suo sapere, perché la tecnica consente di captarlo attraverso gli ingegneri che definiscono i modi di produzione, estromettendo i lavoratori. Su questa interpretazione, bisognerebbe riaprire la discussione con gli operaisti.

Un suo libro pubblicato l’anno scorso in Francia si intitolava «L’emploi est mort, vive le travail! ». Che cosa intendeva?
Anche Marx e Engels nel 1848 si ponevano il problema: l’operaio salariato perde il sapere a favore delle macchine. Nei Grundrisse Marx afferma: se ci sarà un’automatizzazione totale, che lui chiama General Intellect, le macchine assorbiranno tutto il sapere. Ma questa è solo una prima fase negativa, a cui segue una fase positiva. Non riesce però a spiegarlo bene perché non può usare il concetto di entropia negativa o neg-entropia. La produzione di una novità completamente imprevista. Il sapere è ciò che produce l’innovazione, il cambiamento, la variazione, cioè la negazione dell’entropia. Engels rifiuta la teoria dell’entropia nella Dialettica della natura (1883), perché pensa sia contraria alla dialettica. Marx e Engels restano dialettici. Anche Negri esita tra Hegel e Deleuze, o Nietzsche. Ma per seguire Deleuze occorre abbandonare la dialettica.

Lei parla spesso di proletarizzazione collegata all’automazione. È ancora possibile deproletarizzare il lavoro?
Nella situazione attuale abbiamo bisogno di un’economia della neg-entropia che valorizzi la produzione di diversità e variabilità, la diversificazione, la biodiversità e la noodiversità cioè la diversità del pensiero. Sarebbe utile generalizzare per i lavoratori il regime degli intermittenti dello spettacolo in Francia (su questo sono d’accordo con Lazzarato). Un contratto speciale che dà diritto al sussidio di disoccupazione se nell’ultimo anno si sono lavorate almeno 507 ore. L’obiettivo è sostenere il sapere e la produzione di creatività. Nel Manifesto, per Marx, proletario non significa povero, ma designa chi ha perduto il proprio sapere, e aggiunge che tutto il mondo diventerà proletario. La conseguenza della perdita di conoscenza è l’aumento della competizione perché nessuno ha un valore particolare, cioè un vantaggio concorrenziale. La povertà è il risultato. Dal XX secolo viviamo la proletarizzazione dei mestieri intellettuali, del saper vivere e non solo del saper fare. Le persone non si sentono più bene nella propria pelle e diventano aggressive e razziste. La proletarizzazione di massa genera il fascismo, non certo la rivoluzione.

Nel suo libro su «L’avenir du travail», del 2015 si discute in dettaglio il concetto di governamentalità algoritmica, introdotto da Berns e Rouvroy. Il potere dell’algoritmo che impone comportamenti attraverso l’anticipazione di correlazioni che manipolano desideri e azioni. Che cosa ne pensa?
La matematica computazionale applicata usa la probabilità e potrebbe distruggere la statistica. La statistica entra in funzione in Francia e Germania a servizio della scienza dello Stato, per sviluppare quello che Foucault ha chiamato biopotere, o biopolitica. Oggi è sconvolta dalla scienza dei dati che funziona su modelli di probabilità che la esautorano. La statistica era basata su categorie di pensiero che le preesistevano – in quanto categorie legali dello Stato – dibattute da un diritto positivo considerato borghese da Marx . Criticato e combattuto, ma almeno era un diritto. La governamentalità algoritmica della Data science non passa per un dibattito pubblico perché è prodotta da correlazioni che sono il frutto esclusivo degli algoritmi. Gli algoritmi hanno il potere di costruire correlazioni, intervengono a trasformare profondamente il modo di vivere attraverso correlazioni predittive. Ci attirano verso la medietà, il comportamento medio, che ci rende anonimi e noiosi. Ma gli esseri umani sono interessanti solo se imprevedibili, variabili, cioè neg-entropici.
Seguendo Rouvroy, ritengo sia necessario sviluppare un diritto capace di contenere la governamentalità algoritmica. Quando una nuova tecnica appare crea fatti fuori dalle leggi. Nel mio ultimo libro Dans la disruption (2016) ne discuto. La tecnologia va molto più veloce della società e funziona senza regole. È il Far West tecnologico. L’estremismo ultralibertario che conduce alla destra estrema. La legge del più forte. Siamo in una specie di capitalismo delle folle (crowd capitalism), un capitalismo senza limiti, la cui realtà è Donald Trump.