Al piano terra di un edificio di cemento, investito dalla luce del deserto, degli uomini camminano senza una meta precisa, incrociando le proprie traiettorie. Di tanto in tanto, uno di essi sale su uno sgabello. «Ho preso il potere!» Dice agli altri, che reagiscono unendosi a protestare contro il «dittatore» di turno… Dove siamo? Che fanno queste persone? Sono forse pazzi? E, soprattutto, dov’è Avi Mograbi? Il cineasta che apre ogni suo film rivolgendosi alla macchina da presa, raccontandoci attraverso quali peripezie quello che sembrava un problema insormontabile è diventato un film, per una volta, tace.

Una grande parete, l’unica priva di finestre, è piena di scritte e di segni i quali formano un’immagine per il momento incomprensibile. È chiaro che questo geroglifico è un simbolo: esso rappresenta il problema che il film deve sciogliere. Di che si tratta? Nel bel mezzo della parete, c’è un grosso serpente, forse un’eco del film precedente di Avi: In un giardino sono entrato. Ma è una falsa pista: Between the Fences non è un giardino. È piuttosto una prigione. Sebbene quelli che la abitano non siano esattamente reclusi. Possono circolare – a certe condizioni. Sono dei richiedenti asilo. A partire dal 2007 Israele ne ha visti entrare 50 mila nel suo territorio. Vengono dall’Eritrea, dal Sudan. Nel loro paese rischiano la vita e per questo sono protetti dalle leggi internazionali. Israele, che non li ama, li chiama «infiltrati». Ma non può mandarli indietro. Allora li tiene in un centro nel bel mezzo del deserto, sperando che decidano di andarsene da soli.

L’immagine misteriosa appare più chiara. Siamo in una storia tipicamente novecentesca e tipicamente ebraica. Siamo davanti alla porta della giustizia di Kafka – che non è fatta per entrare ma per aspettare. Siamo in Israele, nella terra fondata da rifugiati europei. Siamo davanti a degli uomini che non vengono dalla nazione promessa ad Abramo ma che si trovano in una situazione che ogni Israeliano dovrebbe capire. O meglio, che dovrebbe intuire ancora prima di capire. Il nostro geroglifico, così confuso e astruso, dovrebbe apparire chiaramente alla vista dello spirito o, se si vuole, de cuore: quell’eritreo, quel sudanese, che cerca asilo sono io. Ecco il problema: perché questo processo di riconoscimento non avviene?

Nella prima parte, è chiaro che Avi Sembra ritenere che causa vada cercata in una mancanza di lucidità e di trasparenza. Se l’intuito non funziona, allora bisogna aiutare la ragione. Ecco che il teatro viene in aiuto. Mograbi e il regista teatrale Chan Alon mettono in piedi un laboratorio. Il progetto è quello di far interpretare ai rifugiati di oggi storie di rifugiati di ieri (gli ebrei durante gli anni trenta). Il presupposto è che, attraverso questo scambio, lo spettatore possa superare l’apparenza e cogliere l’essenza della verità: loro sono noi. Dopo un’iniziale euforia, i partecipanti all’atelier cominciano a perdere interesse per il teatro e a mancare gli appuntamenti.

Fino a che i due rimasti trovano il coraggio di dire ai tre «bianchi» che sono venuti ad istruirli sul che fare, che, forse, qualcosa non va. In effetti, perché degli africani che hanno vissuto storie terribili e che nessuno racconta, dovrebbero mettersi in bocca, quando l’occasione si presenta infine di esprimersi, delle storie che non sono le loro? Il lavoro riprende allora in una nuova direzione. Questa volta sono i rifugiati a decidere cosa raccontare e come. Ma basta questo ribaltamento per dare senso al lavoro svolto?

Il primo errore consiste a pensare che basta capire per sentire. Il secondo è quello di imboccare la strada inversa, altrettanto ingenua: basta sentire per capire. È indubbio che Avi sia molto implicato – con il cuore – nella condizione di questi rifugiati. Ma come distinguere l’empatia dalla soddisfazione di sé? Che non sia così semplice lo vediamo in una scena in cui Avi, macchina in spalla, esce dall’edificio e accompagna i rifugiati in una marcia di protesta. La manifestazione finisce con un arresto di massa. Solo e libero, Avi si avvicina ad una griglia, dietro la quale è seduto un vecchio. La scena è comica e terribile. L’uomo con la macchina da presa vorrebbe essere lì, dalla parte del vecchio. Soprattutto, vorrebbe che il vecchio lo aiutasse a passare dall’altra parte, dalla parte dei vinti – se non con i piedi, almeno con il cuore. Ma il vecchio non collabora… Lascia l’uomo bianco a marinare nei suoi sensi di colpa.

E il nostro geroglifico ? Non è detto che alla fine del film venga sbrogliato. Forse, al contrario, il film lo fa diventare ancora più intricato. È quello che impressiona e strappa l’ammirazione in Avi Mograbi: i suoi film sono una vera scuola filosofica, non risolvono i problemi che pongono ma insegnano perché bisogna diffidare delle proprie risposte.