Gli spettri – ci ha insegnato Ibsen – stanno dentro il sangue di tutti noi. Si aggirano per il corpo spaesati, spersi come randagi sull’autostrada: se è impossibile stabilirne il pedigree, più imprevedibile ancora è la natura dei loro comportamenti. Sono sì l’eredità delle madri e dei padri, ma sono anche «tutti i pensieri già pensati», «le credenze morte e sepolte», le «cose antiche e defunte».
I fantasmi sono intrecciati – dice la signora Alving di Spettri – in una catena senza fine. Arrivano da un punto in fondo al tempo, e si arrampicano lungo sentieri che nessuno ha tracciato. Poi sbucano di colpo, si affacciano come un terrore dentro un momento qualsiasi del presente. Sporgono fuori la loro faccia sinistra da una delle pieghe del tempo, fanno capolino sull’oggi: imprevisti, col loro muso deforme, con l’ansito della salita. Basta un nonnulla per riattivarli («Basta che io prenda un giornale e mi metta a leggere»), e loro si mettono in marcia, iniziano la salita. È impossibile – dice Ibsen – dar contezza di quanti siano gli spettri che albergano dentro ciascuno di noi: sono troppi, come i granelli di sabbia del mare. E noi viviamo camminando a passi felpati, camminando rasente i muri, nella speranza che gli spettri restino in quella condizione vegetativa, e nel terrore che, scuotendosi dal loro torpore, tornino a reclamare attenzione.

È un dialogo carsico con Spettri di Ibsen, La notte del professor Andersen, romanzo di Dag Solstad, autore ormai nel canone della letteratura norvegese contemporanea. A distanza di quasi vent’anni dall’uscita, lo pubblica Iperborea nell’ottima traduzione di Maria Valeria D’Avino (pp. 176, euro 16.00). Come negli altri romanzi di Solstad usciti in Italia (Tentativi di descrivere l’imprevedibile, tradotto da Massimo Ciaravolo e Timidezza e dignità, tradotto da Ciavarolo insieme a D’Avino) il protagonista è un uomo che a un certo punto della vita fa i conti con se stesso: sente gli spettri che, da un luogo imprecisato del proprio passato, si mettono in cammino.
Il professor Andersen ha cinquantacinque anni, insegna letteratura all’università di Oslo, ha alle spalle un tentivo fallito di vita coniugale, vive orgogliosamente da solo. Come Elias Rukla, il professore di liceo di Timidezza e dignità, tenta di far percepire agli studenti la grandezza del teatro di Ibsen. Si accalora declamando Hedda Gabler e Spettri, come Rukla faceva leggendoL’anitra selvatica. Gli studenti di Elias Rukla si annoiano; quanto al professor Andersen, è lui stesso a non credere più in nulla. Parla come camminando sul ghiacchio: sopra c’è la vita che si è apparecchiato, sotto c’è quella che negli anni ha rimosso. Sotto la lastra di ghiaccio su cui cammina, gli spettri nuotano con i loro occhi strabuzzati e le loro branchie oscene. Il professor Andersen li può vedere, e in fondo continua a vederli.

A differenza di Rukla, che è in qualche modo un esperto di rimozione, Andersen cerca di entrare in contatto con loro: vorrebbe farsi sentire, vorrebbe che fossero loro a rompere il ghiaccio. Vuole e disvuole, guarda e tira dritto. Sotto quella lastra ci sono gli anni settanta, l’attivismo politico, l’esperienza comunista in un paese così sfacciatamente democratico come la Norvegia: è il nodo anche autobiografico che Solstad, come spiega bene Ingrid Basso nella postfazione, cerca di sciogliere nei suoi romanzi a partire dagli anni ottanta.

Dopo l’eseperienza politica degli anni settanta, il professor Andersen e i suoi amici si sono trovati a tutti gli effetti dall’altra parte della lotta. Sono finiti sulle sedie del potere senza quasi nemmeno fare il gesto di sedersi. Di lì la contraddizione, in qualche modo lacerante, la pretesa di far finta che non sia cambiato niente. Non possono ammetterlo senza passare per l’abiura. «Non si sono adeguati né al potere, o sarebbe più corretto dire dovere, che esercitavano, né all’ambiente cui appartenevano. Negavano di essere quello che erano. Non si erano adeguati al loro effettivo status. Erano primari, alti funzionari, capi psicologi, autori osannati e professori di letteratura ma tutti, senza eccezione, intimamente convinti di non essersi mai omologati alla forma che quelle posizioni richiedevano».

Gli amici con cui si incontra il professor Andersen pattinano come lui su quella stessa lastra: «Erano ancora contro il potere intimamente opposizionali, anche se di fatto erano i pilastri della società, in tutto e per tutto esecutori degli ordini dello Stato». Ma i suoi amici non si fanno mettere in scacco da Ibsen, non provano la vertigine intrinseca all’osservazione del muso gonfio degli spettri, che muovono branchie e squame sotto il ghiaccio.

Andersen chiede a Ibsen di fare da rompighiaccio. Con le sue parole colpisce la lastra su cui scivola. Ma le parole non possono più nulla: vent’anni di rimozione hanno reso il ghiaccio troppo spesso perché sia possibile provare qualcosa di diverso dal congelamento: «Quando è stata l’ultima volta – si chiede tormentato – in cui ti sei scosso vedendo o leggendo una tragedia greca? Intendo dire scosso davvero, sconvolto nel profondo del tuo essere». Le parole, sembra dire Solstad, sono sacchetti per conservare il mondo in freezer. Le parole con cui l’esperienza politica ha archiviato la realtà negli anni settanta, hanno trasformato il mondo in cubetti di ghiaccio. Chi maneggiava e sbandierava quelle parole in quegli anni, ogni tanto li tira fuori, ci si rinfresca il drink e poi torna a sedersi sulle sedie del potere.

Ma gli spettri sono muti come i pesci: non conoscono le parole, e le parole non fanno presa su di loro. Sfondano, fanno scempio del presente. È da qui che prende le mosse il romanzo di Solstad. La vigilia di Natale, solo in casa in una sorta di domestica e compiaciuta liturgia laica, il professor Andersen assiste a un omicidio, o a quello che a lui sembra un omicidio. Nella finestra di fronte vede, in piena atmosfera hitchcockiana, un uomo assassinare una donna. Potrebbe intervenire, chiamare la polizia, urlare. Potrebbe, e in fondo pensa che sarebbe importante farlo. Sarebbe forse troppo tardi, ma almeno darebbe il suo contributo alla giustizia. Il professor Andersen tuttavia non lo fa. Si apposta dietro la finestra, cerca di capirci qualcosa di più. Si interroga sulla propria reticenza, si mette sotto accusa.
Quel segreto gli ticchetta dentro la pancia come una bomba, ed è con quella bomba che comincia a camminare per le strade di Oslo, entra dentro la casa dei suoi amici, deciso a condividerla almeno con qualcuno. Con quella bomba, con quello stesso ticchettìo, esce dalla casa degli amici, dove di fatto si svolge gran parte del romanzo: è una specie di grande chiacchiericcio, ovvero il correlativo oggettivo di una società che non fa i conti con i propri spettri. L’omicidio, dostoevskianamente, irrompe come un’ernia, spacca la superficie levigata del presente.

Il professor Andersen non parla con i suoi amici perché in fondo sa che non avrà mai complici o compagni di tavola, a cena con gli spettri. L’unico suo possibile interlocutore è l’assassino. Solo chi è in grado di compiere un gesto così abnorme, pensa il professor Andersen, potrà aiutarlo a sfondare il ghiaccio. Solo chi non ha paura di violare le maglie della legge potrà forse essergli d’aiuto per recuperare quel «turbamento» ibseniano di cui parla ai suoi studenti senza in fondo crederci davvero.
L’omicidio di cui è stato testimone è la bomba, si illude Andersen, che deflagrando spaccherà la pellicola di ghiaccio che ha sostituito la sua pelle. Nell’esplosione salteranno in aria tutti gli spettri che gli stanno chiusi dentro. Ma nella vita ci si affeziona a tutto, prima di tutto ai propri tormenti. E così come in fondo non è male passare da soli la vigilia del Natale, non è del tutto sgradevole passare il tempo con un ordigno che ticchetta nella pancia. Batte il tempo alle giornate, gratta la scorza dura della noia, è la colonna sonora di tante piccole meschinità, di molte codardie funzionali, di quasi tutte le rinunce.