Baghdad e Washington sono ai ferri corti. Il campo di battaglia è Tikrit, città natale di Saddam Hussein, da lunedì target di 30mila soldati, milizie sciite e sunnite, peshmerga e guardie rivoluzionarie iraniane. Per riprendere la città, il governo ha lanciato la più ampia controffensiva mai organizzata dall’inizio dell’avanzata dello Stato Islamico, prova generale per quella che potrebbe essere lanciata entro l’anno contro Mosul, roccaforte del califfato.

Dell’armata irachena fanno parte in tanti. Mancano gli Stati Uniti. Dei raid, unica (o quasi) azione militare assunta ad oggi dalla coalizione, nemmeno l’ombra. Un’assenza assordante che fa infuriare i vertici iracheni.

La Casa Bianca non nasconde il fastidio per un’operazione che dice chiaramente di non approvare. Ufficialmente, dicono funzionari Usa, non si doveva agire perché in corso sul terreno c’è una guerra civile: ai sunniti e gli sciiti schierati con l’esercito di Baghdad si contrappongono milizie tribali sunnite sostenitrici del califfato e poste a difesa di Tikrit. Fin dai primi passi mossi dall’Isis in terra irachena, l’avanzata degli islamisti è sostenuta da fedelissimi di Saddam, ex generali e membri del partito Baath e tribù sunnite che hanno visto in al-Baghdadi la possibilità di scardinare il nuovo esecutivo sciita e riprendere così il controllo del paese.

E Tikrit, città natale dell’ex leader sunnita, è un simbolo cruciale per i sunniti anti-Baghdad e quindi terreno dell’acuirsi dei settarismi interni, rispuntati durante l’occupazione Usa e ora primaria minaccia alla stabilità interna. Lanciare un’offensiva contro Tikrit, ha detto Josh Earnest, portavoce della Casa Bianca, svela l’eventuale strategia per la ripresa di Mosul e potrebbe essere «una scusa per azioni motivate dai settarismi».

Strana analisi: per evitare i settarismi religiosi, meglio lasciare Tikrit in mano allo Stato Islamico. Che, com’è ovvio, approfitta dell’assenza dei raid aerei Usa. Dopo quasi una settimana di scontri le forze governative stanno rallentando, incapaci di proseguire oltre i quartieri più periferici della città. Ieri miliziani islamisti hanno dato alle fiamme alcuni pozzi di petrolio a nord per frenare l’avanzata delle milizie sciite e dei soldati governativi.

In realtà i timori di Washington sono altri: la presenza dei pasdaran e del generale Suleimani che sta gestendo le milizie sciite ha un risvolto pericoloso per gli Usa. L’eventuale presa di Tikrit, roccaforte sunnita, si tradurrebbe in un rafforzamento dei gruppi militari sciiti, a scapito dell’esercito ufficiale voluto dagli Stati Uniti. E si tradurrebbe in un rafforzamento dell’Iran, unica forza nazionale in campo al fianco di Baghdad.

La Casa Bianca è stata chiara: «[A Tikrit] ci sono anche forze iraniane – ha aggiunto Earnest – Abbiamo detto fin dall’inizio che gli Stati Uniti non si coordineranno militarmente con l’Iran». La scelta statunitense fa storcere la bocca al premier al-Abadi che non nasconde il fastidio: «Siamo stufi, gli americani continuano a procrastinare la liberazione del paese – ha commentato uno dei più stretti consiglieri del premier, Ali al-Alaa – Allora l’Iraq libererà Mosul e Anbar da solo».

E mentre salgono le tensioni tra Baghdad e Washington i media italiani ieri hanno pubblicato un video girato il 25 febbraio durante un attacco dell’Isis contro combattenti del Pkk attivi a Rojava. Nel video si sente un miliziano ripetere «Yalla, Ya Rab», un’invocazione a Dio. Secondo altri, invece di Ya Rab, il miliziano ripeterebbe «piano, piano». La prova di un italiano arruolato con l’Isis, secondo i media.