Più che un articolo di fondo è un cannoneggiamento. Non è ancora l’avvio della grande offensiva contro il governo Renzi, ma l’annuncia e la prepara. Nella non storia del Corriere della Sera era successo solo una volta che il direttore attaccasse frontalmente un presidente del consiglio, Bettino Craxi, e anche in quel caso con toni vellutati a paragone di quelli violentissimi adoperati ieri da Ferruccio de Bortoli. Non in un editoriale come tanti, ma nel primo numero del nuovo Corriere, ridisegnato per intero.

Va da sé che le cose che ha scritto (uno smantellamento spietato di Renzi, del suo governo, delle sue riforme e del suo metodo) de Bortoli le pensa sul serio, senza che qualcuno abbia dovuto ordinargli di scriverle. Ma è altrettanto ovvio che per alzare un simile volume di fuoco il direttore, in uscita, del Corrierone doveva essere certo che l’affondo non sarebbe dispiaciuto ai suoi circoli di riferimento. Berlusconi, che con tutti i suoi miliardi non ha mai smesso di essere un ragazzo di provincia, avrebbe detto «i poteri forti», con l’occhio rivolto al cortile di casa Italia. Più realisticamente, si tratta dell’intero establishment che conta, italiano certo, ma anche europeo e in buona parte a stelle e strisce.

L’attacco del quotidiano milanese si affianca a quelli ormai settimanali del fondatore di Repubblica, più pacati nei toni, non meno critici nei contenuti e oltretutto spesso scritti sulla scorta di conversazioni, apertamente citate, con Mario Draghi. L’obiettivo è evidente, anche se de Bortoli diplomaticamente lo nega: se Renzi, considerato non a torto l’«ultima spiaggia», ha perso la fiducia dei poteri reali, l’unica è ricorrere a una qualche forma di commissariamento. E’ quella la vera partita che si sta giocando, sotto traccia, in Italia: lo scontro tra chi progetta di mettere il Paese sotto tutela della troika e chi intende a tutti i costi evitare quell’esito. In primo luogo Renzi.

Il commissariamento, però, può realizzarsi per vie diverse. Una è quella, sostenuta dallo stesso Draghi, dell’intervento diretto della troika, modello Grecia. L’altra passa per l’elezione di un presidente della Repubblica dotato di tale forza, credito e sostegno internazionale da poter mettere sotto tutela Renzi, nonostante il bilanciamento dei poteri sia sulla carta molto più favorevole al presidente del consiglio che a quello della Repubblica. Di nomi simili l’anagrafe italiana ne conta pochi, forse uno solo: Mario Draghi, appunto. E’ un modello di presidente-diarca, se non tutore, opposto a quello che ha in mente l’inquilino di palazzo Chigi, che vagheggia invece un presidente – preferibilmente donna – subordinato ai voleri del capo del governo. La più papabile pare essere Roberta Pinotti. Ma il nome, in questo caso, conta molto meno del modello. Quando Napolitano, per frenare le tentazioni elettorali del giovane Matteo, gli fa sapere che, a fronte di una crisi, lui non sarebbe più fisicamente in grado di fronteggiarla e dovrebbe quindi cedere lo scettro prima e non dopo le elezioni, punta proprio su questo elemento. Le camere future saranno largamente egemonizzate dai soci del Nazareno. Basterebbe un’intesa a due per decidere il nome del nuovo capo dello stato. In queste, come si è già visto, controllare i parlamentari è missione impossibile: se Draghi fosse in campo quasi certamente la spunterebbe.
In questa situazione, che dire difficile è un eufemismo, Renzi può contare su un solo vero alleato, la cui fedeltà è garantita dalla convergenza di interessi. Si chiama Silvio Berlusconi.