Physarum polycephalum: con un nome così curioso, non era destinato a un grande avvenire, soprattutto se pensiamo che stiamo parlando di un organismo unicellulare. Eppure è ormai una star grazie al lavoro di scienziati e artisti che sanno raccontare e visualizzare le proprietà miracolose di questo fungo mucillaginoso o Mixomiceti, con la stessa etimologia del muco a causa della sua massa giallastra e spugnosa. Malgrado l’associazione frequente al vomito di cane e ad altre immagini dello schifo e della deiezione, le sue capacità di problem solving, di orientamento nello spazio e di pronta risposta all’ambiente non cessano di sorprendere gli studiosi. Privo com’è di una forma precostituita, si adatta all’ambiente e risponde ai suoi stimoli, ritraendosi solo davanti alla luce, alla siccità o al sale. Malgrado non abbia un cervello (anche se il suo nome vuol dire «dalle molte teste»!), neuroni o organi sensoriali, è dotato di intelligenza, capace di prendere decisioni e orientarsi nei labirinti, d’imparare e ricordare. Malgrado non abbia bocca, occhi, stomaco, membra, riesce a mangiare (va matto per i fiocchi d’avena), digerire, muoversi, strisciando e lasciando dietro di sé una bava. Malgrado la sua massa, detta plasmodio, sia informe, raddoppia di taglia ogni giorno e trasmette informazioni con la sua rete di vene la quale, rispetto alla nostra, si riorganizza incessantemente. A proposito, per non farsi mancare niente, il Physarum ha 720 sessi. È stato persino paragonato al ruolo che fringuelli e testuggini delle isole Galapagos hanno giocato nella teoria dell’evoluzione di Darwin.

Ora, potremmo immaginare che il Physarum, sorta di computer biologico di cui sono stati realizzati il modello matematico e l’algoritmo, interessi solo i laboratori scientifici che lavorano sulla genetic engineering, la biotecnologia e, al limite, l’architecture design e le imaging technologies. È invece presto entrato anche negli atelier degli artisti, affascinati da un’ameba così tenace da aver messo a dura prova le classificazioni dei botanici sin dal XIX secolo. Se il suo genoma è stato sequenziato solo nel 2015, questa sostanza non sembra aver mai risolto le sue crisi d’identità, che hanno ripercussioni sul nostro modo di pensarci in quanto viventi nel mondo.

Con i suoi Physarum Experiments, l’artista inglese Heather Barnett ha eletto il Physarum a suo collaboratore sin dal 2008. Osservando e influenzando la sua crescita, cerca di disegnare con il blob, assieme organismo vivente, fenomeno culturale e agente artistico. Lavorando empiricamente tra arte e scienza, tra design speculativo e microbiologia, approfondisce questioni di comunicazione non verbale e interazione sociale, partecipando ad attività non solo espositive che vanno dal sito internet Slime Mould Collective al documentario The Creeping Garden (2014).
Nel complesso, la «menagerie di microbi» – titolo di una mostra collettiva sui micro-organismi tenutasi nel 2016 a Edimburgo e co-curata da Barnett – su cui lavorano tanti artisti è lontana dal catastrofismo di un film come The Blob (1958), a lungo unica immagine, poco lusinghevole, della melma famelica se non assassina. Oggi assistiamo alla rivincita dello slime, di cui la biologa tedesca Susanne Wedlich ha scritto una biografia scientifica, Vischioso. Storia naturale dello slime (Nottetempo 2023), per non citare un bestseller francese non ancora tradotto in italiano, Le Blob di Audrey Dussutour (Équateurs 2017). Elementi che ci aiutano a tracciare uno slimescape di funghi, amebe e batteri, i cui contorni restano giocoforza in costante movimento e che va almeno da Edvard Munch, appassionato di protoplasma, a quegli artisti come Barnett che oggi s’interessano all’informe e al viscido, di cui il Physarum è un degno rappresentante.