Cosa abbia attirato un regista come Werner Herzog nella figura di Getrude Bell non è difficile immaginarlo: archeologa, scrittrice, nata a Washington Hall, nel 1868 in una ricca famiglia britannica, laurea a Oxford, conoscenza di molte lingue, stanca della noia di un’esistenza fatta di balli, corteggiatori, lusso inizia a percorrere il Medio oriente diventando ben presto una figura leggendaria. Una donna occidentale che viaggia da sola, a comando di un gruppo di uomini, e si spinge sempre più lontano anche quando la Prima guerra inizia a sgretolare l’Impero ottomano e il comando britannico le è ostile temendo che sia una spia. Ma alla fine del conflitto sarà lei che chiameranno per tracciare i nuovi confini e sarà lei a stabilire quelli di Giordania e Arabia Saudita. Gertude, la signora del deserto, è conosciuta e rispettata da sceicchi e emiri, che anche se a governare quel mondo è la legge degli uomini la considerano una pari col diritto di sedere alla loro tavola. Mentre nel suo mondo, in occidente, è malvista se non disprezzata o definita – come nelle parole dell’ufficiale inglese – «una pazza puttana». Nessuno può comprendere come sia stato possibile che quella nobildonna che aveva tutto, alla vita di agi, da moglie e madre e padrona del castello, ne abbia preferito una in mezzo a dei «selvaggi».
Gertrude Bell rientra nei personaggi – seppure donna di solito sono uomini – herzoghiani tutti in bilico nelle loro esistenze fatte di gesti e scelte estremi.

La Gertrude di Queen of the Desert peró non è il Fitzcarraldo di Klaus Kinski, la sua cioè non è l’impresa di un’ epica impossibile, e nemmeno il sogno visionario di una grandezza feroce. Gertude, che ha gli occhi azzurri e l’ironia sapiente del sorriso di Nicole Kidman, cerca la conoscenza, vuole scoprire l’ignoto, dare un’immagine ai luoghi della cultura millenaria, delle leggende e del mito. Entrambi i personaggi, certo, esprimono un’ossessione, o se vogliamo diverse declinazioni dell’occidente verso l’altrove: la conquista cieca di Fitzcarraldo in Gertude è invece la fascinazione per il viaggio, per l’orizzonte sconosciuto, la sua cultura e la sua fisicità, il perdersi fuori dal tempo nello spazio infinito del deserto.

E qui, nel deserto, costruisce la sua sfida anche il regista Herzog: filmare il deserto, la luce e la sua fisicità inafferabile, la sua anima e la sua forza – lo aveva già fatto in Fata Morgana – al punto quasi da far coincide il racconto della vita di Bell con quello dei luoghi a cui comunque è indissolubilmente intrecciata. Se in Fata Morgana il deserto parlava da sè, attraverso le tracce di morte e guerra che la macchina da presa rivelava nelle dune, in questo film vive nella narrazione «romanzesca» della vita di una donna irrequieta e ostinata sulle cui tracce Herzog ripercorre l’immaginario l’iconografia dell’oriente a occidente del secolo scorso. Tehran,Amman, Petra, Damasco, Bagdad dove Gertrude è sepolta,Ha’il; i stretti vicoli del mercato persiano tra spezie dall’odore sconosciuto, le donne con le mani dipinte dall’hennè, le tende dei beduini coi loro tappeti dai colori preziosi, la danza del ventre e il profumo degli oli, le oasi coi cammelli sul filo dell’orizzonte infinito. E, naturalmente il desiderio, solo Kidman poteva essere Gertrude, che gli uomini amano subito ma che fuggono tranne qualcuno, destinata a vita solitaria – lo dice lei stessa di sè.

Sono i disegni, gli schizzi degli esploratori, i racconti del viaggio con la fascinazione innamorata che esprimomo i diari della protagonista, e poi le fotografie, i dipinti, quell’aura di romanticimo misterioso e la febbre in chi l’ha provata che lo rende incapaci di tornare a «casa». È il cinema di intrighi e mistero e amori disgraziati come quelli di Gertrude che perderà il primo uomo di cui si è innamorata e col quale condivide la sua passione per l’oriente (James Franco) ma da cui viene separata per l’ostilità del padre alle loro nozze, e che morirà misteriosamente. Poi l’ufficiale inglese caduto in guerra, a Gallipoli, sposato che non poteva amarla e al dolore della separazione ha preferito il campo di battaglia … Lawrence d’Arabia, riferimento esplicito con la presenza del giovanissimo Lawrence affidato a Robert Pattinson e forse anche Von Sternberg, l’oriente della Storia con la spartizione delle terre ottomane alla fine del primo conflitto mondiale fatta in modo cieco e arrogante che provocherà solo caos. E quello narrativo di spie, intrighi, uomini e donne eccentrici.

All’immaginario dell’occidente sull’oriente appartiene dunque anche Gertrude cosí che la donna puó dire, lei che parla farsi e traduce i versi del poeta Omar Khayamm allo sceicco druso che l’accoglie e le parla di Virgilio come sia possibile che conosca l’Eneide. E l’uomo, sorridendo le dice che ha vissuto a Parigi e ha studiato nel mondo.

Sono i tocchi della crudeltà (artaudiana) di Herzog, come inscenare il momento romantico del primo bacio tra i protagonisti davanti agli avvoltoi che mangiano scheletri. Dentro e fuori l’immaginario, con una potenza visiva meravigliosa, dispiegata in ogni fotogramma: è in questo bordo che vive il film, nel gioco di rifrazioni e smascheramenti (Pattinson non è Peter Toole ma Herzog sembra divertirsi molto a demitizzare il Lawrence che ha comunque sempre gli occhi blu) dove la verità è la potenza delle immagini. E quel che resta del loro mistero.