Giace da alcuni anni, almeno al 2009, sepolto e dimenticato in una rivista specializzata di teoria e critica della letteratura («Moderna», XI, 1-2), in un numero monografico dedicato al grande filologo tedesco Erich Auerbach, il breve epistolario che egli ebbe, dal 23 settembre 1935 al 3 gennaio 1937, con Walter Benjamin.

Un’ottima occasione per riesumare almeno un paio di queste lettere ci è data dal tema del convegno che si svolgerà dal 25 al 26 marzo al Dipartimento di Scienze politiche, Sociali e della Comunicazione dell’Università di Salerno: «Dalla città di Robert Park ai processi migratori contemporanei». L’incontro, organizzato da Raffaele Rauty, è pensato per celebrare il centenario dell’uscita, sull’«American Journal of Sociology», del primo saggio che Park, uno degli esponenti di spicco della Scuola di Chicago, dedicò al tema della città.

La riesumazione di queste lettere non dipende tanto dal fatto che Benjamin, al pari del grande sociologo americano, avendo subito l’influenza della riflessione avanguardistica di Georg Simmel sulla vita urbana, si sia occupato pure lui di metropoli – si pensi non solo alle «immagini di città» (Napoli, Mosca, Marsiglia e altre), ma all’intero lavoro su Parigi, capitale del XIX secolo – quanto, piuttosto, dalla semplice constatazione della sua condizione di migrante ebreo perseguitato e, più in generale, della sua posizione all’interno di quel pauroso processo migratorio creato dalle leggi razziali naziste che lo spingeva a cercare accoglienza, rifugio e integrazione nelle istituzioni urbane europee.

Razza e metropoli, allora, sono i concetti sotto i quali poniamo la lettura di queste due lettere. Non basta solo «misurare» la capacità delle metropoli di reagire ai fenomeni migratori in termini di welfare, di stato sociale, con tanto di strutture di accoglienza, di riconoscimento formale di diritti, di politiche securtarie, bisogna pure «registrare» lo sguardo di chi arriva su tutto ciò, la reazione emotiva e intellettuale del soggetto di fronte all’oggettività del nuovo scenario di vita quotidiana in cui si ritrova, per integrarla a sua volta nelle strategie di ospitalità.

C’è sicuramente una lunga e affascinante storia intellettuale che lega gli autori delle lettere, sulla quale, soprattutto gli specialisti contemporanei di Auerbach, hanno fatto luce (Karlheinz Barck, Robert Khan, Raúl Rodríguez Freire, Elena Fabietti), storia scandita da tappe precise: l’aver pubblicato entrambi sulla rivista «Die Argonauten», la vicendevole lettura dei propri lavori (ad esempio, «Dante poeta del mondo terreno» e anche, molto probabilmente, «Figura» da parte di Benjamin; almeno «Destino e carattere» e «Il dramma barocco tedesco» da quella di Auerbach), lo scambio epistolare.

Eppure, se si leggono queste lettere oltre tale dato culturale, e le si riporta alla comune condizione esistenziale degli scriventi, ossia quella di migranti perseguitati dalle stesse leggi razziali che cercano di integrarsi nelle metropoli di accoglienza, ebbene, Parigi e Istanbul, attraverso il loro sguardo, iniziano ad assumere una strana fisionomia.

Nella prima Benjamin si era rifugiato a partire dal marzo del 1933 in seguito alla presa di potere dei fascisti tedeschi, nella seconda Auerbach ci era arrivato, come si legge chiaramente nella lettera che pubblichiamo, dopo il 1935, da Marburgo, dove era titolare della cattedra di filologia romanza e che non aveva dovuto abbandonare dopo la proclamazione delle leggi di Norimberga perché, sebbene ebreo, essendo stato decorato con la prestigiosa Croce di Ferro al valor militare durante la Prima Guerra mondiale, godeva, come tutti i decorati, di un privilegio eccezionale.

Viste nella prospettiva della razza migrante perseguitata, le metropoli cambiano: quella francese mostra un volto inospitale se le si chiede la naturalizzazione (in una lettera del 6 ottobre del 1935 Auerbach aveva avvisato Benjamin: «Con la disponibilità ad aiutare di certi francesi non ho avuto buone esperienze»), quella turca un’espressione cinica, perché fa vedere quanto la forza lavoro intellettuale specializzata (nel caso di Auerbach, le sue competenze filologiche) possa essere impiegata in modo fungibile per europeizzare la cultura nazionale.

Lette come testimonianze della tempesta storica in cui furono scritte, queste lettere fanno sentire la loro attualità.