Gli avvenimenti dell’ultima settimana a Ferguson hanno messo in luce l’importanza che hanno acquistato i social network nella narrazione giornalistica e nella definizione di evento. I primi due giorni di scontri, Ferguson infiammava Twitter e non compariva nei grandi network televisivi, erano due mondi paralleli ma a questo ormai siamo abituati, lo abbiamo visto accadere i tante piazze e in tante timeline. In un’epoca antecedente forse sarebbe rimasta una notizia locale, forse ci sarebbero state altre vittime, di certo in quest’epoca in corso i social media sono stati un elemento chiave per sapere cosa stava accadendo e in quali modalità.

Uno dei target della polizia di Ferguson sono i reporter, ma la distinzione tra giornalisti accreditati e street journalist è ormai talmente labile che non si può più tracciare un confine, la prima fonte sul campo è stata @AntonioFrench, di professione consigliere comunale, che ha dato le immagini della follia militarizzata a cui stiamo assistendo.

Ma Twitter viene usato anche per le analisi degli avvenimenti, come nel caso del corrispondente del Los Angeles Times, @mattdpearce, tra i primi ad arrivare e ad analizzare come le manifestazioni di protesta si sviluppano e svolgono fuori da un contesto urbano da grande città, là dove non ci sono piazze aggreganti ma stazioni di servizio e catene di fast food. I gionalisti e gli osservatori arrivati dopo non si sono trovati davanti un territorio sconosciuto, ma già scandagliato fisicamente e teoricamente da chi era lì dall’inizio. Sono state pubblicate mappe e meta mappe della zona, tutto con l’immediatezza dei 140 caratteri e con molteplicità di voci.

A distanza di una settimana dall’uccisione di Matthew Brown di fatto c’è tutto il mondo ad aspettare una risposta da parte delle autorità nei confronti del poliziotto che lo ha ucciso e la storia non può semplicemente finire lì. Questo porta ad una evoluzione del concetto di evento per cui non sono i numeri a fare la differenza, ma l’avvenimento in sé. Che un poliziotto (bianco) possa impunemente uccidere un ragazzino (nero) in pieno giorno senza un motivo per farlo è grave abbastanza, che la polizia ipermilitarizzata si presenti in forze per impedire una ragionevole protesta e che si rifiuti di dare il nome del colpevole è gravissimo, indipendentemente da quante persone si siano fisicamente mobilitate.

Ferguson ci sta anche mostrando l’evoluzione del linguaggio e dei mezzi a disposizione dei reporter. La primavera araba è stata l’inizio di un giornalismo dal basso che ha permesso sia a chi era sul campo di organizzarsi che di far sapere al mondo degli eventi; Occupy ha visto la nascita del livestream e difatti uno dei livestrem più seguiti in questi giorni è quello di Vice News, per opera di @timcast, newyorchese e livestream di Ows.

Ora lo strumento più usato è il filmato breve da allegare al twit, Vine, Instagram servono a raccontare Ferguson per immagini e suono, vista anche l’onnipresenza dei cannoni assordanti tanto amati dalla polizia statunitense. Un cambiamento di mezzo e quindi di linguaggio, di percezione e quindi di reazione all’evento che esce dalla bidimensionalità della carta stampata come dello schermo televisivo e diventa crudamente reale.

Un ruolo importante è anche la narrazione a posteriori che viene fatta sempre tramite Twitter. Gli scontri in Missouri avvengono durante la notte, con quel fuso orario ma vengono fruiti da abitanti di tutti i fusi orari. Chi è in grado di ricostuire gli avvenimenti riorganizzando l’enorme flusso di notizie arrivato poche ore prima e di re veicolarlo, magari traducendo i twit, fa un lavoro complementare e indispensabile per la comprensione e la diffusione dell’accaduto.

Un esempio di questo è @AlaskaHQ, aka Marina Petrillo, che riesce a riordinare i punti principali di notti congestionate di avvenimenti.