Denaro virtuale, con la magia della moltiplicazione dei pani e dei pesci, per far fronte a una crisi economica ben reale, con una disoccupazione che colpisce nella Ue 24,8 milioni di persone (di cui 18,4 nella zona euro). Jean-Claude Juncker ha rivelato ieri alcuni dettagli del piano di rilancio, la promessa che lo ha fatto eleggere alla presidenza della Commissione (grazie anche ai voti dei social-democratici): “l’Europa sta voltando pagina – ha assicurato – ora puo’ offrire speranza al mondo su crescita e occupazione”. Il termine-chiave è “fiducia”, cioè lo scopo del piano, che prende il nome di Fondo europeo per gli investimenti strategici (Feis), è scommettere in un ritorno della fiducia da parte dei privati. Difatti, l’ipotesi dei social-democratici di un piano di investimenti pubblici consistente, non si realizza.

Praticamente, il Feis, creato dalla Bei (Banca europea di investimenti, la banca che finanzia i progetti di infrastrutture europee nel lungo periodo) in una struttura ad hoc, avrà solo 5 miliardi di euro di denaro fresco. La banca, cioè, resta estremamente prudente perché non vuole perdere il rating AAA.

A questi 5 miliardi la Commissione addiziona 16 miliardi di “garanzie” degli stati, virtualmente presenti nel bilancio Ue: ma il bilancio dell’Unione è stato rivisto al ribasso, è addirittura in rosso e, inoltre, c’è chi non paga, come la Gran Bretagna. Cosi’, su 16 miliardi, in realtà ce ne sono solo 8, più o meno esistenti da dare in garanzia. Juncker e i suoi esperti ritengono che questi 21 miliardi in parte virtuali avranno un potere di “effetto leva” pari a 15: 21×15=315. Ecco tornare, come per magia, la famosa cifra promessa, il “piano di rilancio di 300 miliardi”, il New Deal della Commissione dell’ultima spiaggia.

E c’è di più: la Bei, prudentissima, finanzierà al massimo il 20% dei progetti che verranno accettati, il resto dovrà venire dai privati, che grazie alla forza del Feis avranno ritrovato la “fiducia” scomparsa a causa della grande crisi. E poi la fantasia puo’ scatenarsi: “prometto che non considereremo i contributi degli stati al Fondo di investimento nei calcoli del Patto di stabilità”, ha detto Juncker, aprendo uno spiraglio interessante (perché non togliere dal calcolo anche altre spese? Per esempio, la Francia vorrebbe “comunitarizzare” la spesa militare, se spendesse come la Germania per la Difesa – rispettivamente 2,2% del pil contro l’1,4% – rispetterebbe il Fiscal Compact). Ma anche se i paesi in crisi, costretti a grattare il fondo del barile per tentare di rientrare nei parametri, potranno destinare dei soldi al Feis, non avranno la garanzia di avere in cambio finanziamenti per i propri progetti. Juncker promette “trasparenza”, le decisioni su quali progetti finanziare saranno prese da un comitato indipendente, un consiglio di amministrazione del Feis composto da 16 membri provenienti dalla Commissione (“non politici né tecnocrati”, assicurano a Bruxelles), più 5 nominati dalla Bei. Il problema è che nell’affanno generale suscitato dalla promessa del Feis, a Bruxelles sono arrivate 1800 proposte di progetti, per un valore di 1100 miliardi, cifra ben lontana anche dalla moltiplicazione dei pani e dei pesci dei 315 miliardi.

La gestione del piano sarà messa sotto il controllo del potente vice-presidente della Commissione incaricato della crescita, Jyrki Katainen. Pierre Moscovici, commissario agli Affari economici e monetari, ha rivelato che anche per i 5 miliardi di denaro fresco ci sono state reticenze: “ma senza denaro fresco il piano sarebbe apparso all’opinione pubblica un gioco di prestigio e di conseguenza sarebbe stato un flop”.

Il problema è che i “soldi freschi” non ci sono: gli stati del sud non li hanno e quelli del nord non vogliono spendere.

Dal 2007, gli investimenti nella Ue sono diminuiti di 430 miliardi di euro (il 75% di questi mancati investimenti sono stati concentrati in Francia, Italia, Grecia, Spagna e Gran Bretagna). Contemporaneamente, gli Usa hanno immesso nel mercato quasi 800 miliardi di dollari. E il risultato si vede: la ripresa statunitense è superiore al 4%, mentre la Ue è allo 0,1%, con investimenti sempre in calo.