Un filo rosso sembra legare le loro produzioni nei venticinque anni di presenza sulla scena italiana, lo scandaglio della favola come mezzo di conoscenza per eccellenza, fin dalla nostra infanzia.
Fanny & Alexander , il gruppo teatrale fondato appunto nel 1992 da Chiara Lagani e Luigi De Angelis, pone lo spettatore di fronte alle paure, alle meraviglie e alle perfidie infantili, che poi spesso accompagnano l’età adulta, ingrossandosi, anzi, con le sovrastrutture con cui ciascuno si scherma nella lotta per la sopravvivenza.
E anche in questo To be or not to be Roger Bernat, in scena fino a domani al Teatro India di Roma, il gruppo ravennate entra nel plot dell’arci noto dramma shakespeariano, sezionandolo e agendolo attraverso linguaggi e forme diverse, dal video cartoon dei Simpson all’audio di vecchie versioni cinematografiche e ad auto-citazioni di precedenti suoi lavori, a partire da un assunto basilare dell’Amleto, l’usurpazione.

Attore storico dei Fanny, Marco Cavalcoli compare in questa conferenza spettacolo nei panni di Roger Bernat, il regista catalano con cui la compagnia ha lavorato nel corso di una recente residenza artistica in Polonia, rubandone l’identità e il suo teatro partecipato, in un tumultuoso multilinguismo, per affrontare il quale ogni spettatore all’entrata viene munito di un apparecchietto con auricolare per traduzione simultanea, nel caso deficitasse in francese, inglese, spagnolo (talvolta maccheronico, e significativamente niente catalano).

L’italiano non basta al gran conferenziere Cavalcoli, nel suo tentativo di spiegare cos’è il teatro e qual è la funzione dell’attore quando incontra un personaggio. Un esperimento godibilissimo che crea un confine sottile tra vittima e carnefice, attore e spettatore, in ruoli interscambiabili con l’utilizzo di quel particolare dispositivo che è l’eterodirezione messa a punto dai Fanny e il già citato teatro partecipato di Bernat. Cavalcoli dà un’altra prova straordinaria delle sue capacità attorali, ma raggiunge davvero un virtuosismo non comune quando, chiamato un spettatore a fare il re e armatolo con una diabolica tastierina, si lascia dirigere nei salti repentini da un’interpretazione e l’altra dei tanti Amleti della storia.

Alzando e abbassando il tono della voce, modulandola tra grida e sussurri su una partitura fisica eccellente. Tra teste mozzate e bare in miniatura, in sessanta minuti le afflizioni e i dubbi del principe di Danimarca sono analizzate, destrutturate e reinterpretate con il coinvolgimento di timidi spettatori che una volta in scena si prestano (sadicamente) al gioco, versano veleni nelle orecchie, si sposano, si ammazzano… È la scena della vita, che si ripete. La nostra.