partigiana

È andato cercandoli per anni in giro per l’Europa, la sua è stata quasi un’ossessione, come lo sono sempre le idee forti che vengono da lontano. Cercava i partigiani sopravvissuti, Danilo De Marco. Il primo lo aveva da sempre a portata di mano, nella sua Udine: era Sergio Cocetta, nome di battaglia Cid. De Marco lo conosceva da decenni, da quando lui era ancora un bambino e il Cid invece già un uomo, dal «volto di pietra romanica», che aveva molto da raccontare e da insegnare, e da cui infatti De Marco molto ha imparato.

Tutto è cominciato da lì, nel 2004. Poi gli altri partigiani, complessivamente più di mille, De Marco li ha trovati altrove, non solo in Italia ma anche in Francia, in Spagna, in Germania, in Serbia, in Grecia, in altri luoghi ancora. È andato «spigolando» fra le loro esistenze, letteralmente raccogliendone le storie come si raccolgono le spighe di frumento nei campi di grano dopo la mietitura. Li ha scovati, li ha conosciuti, ha intrecciato con loro relazioni di fiducia sulla base di parole, sguardi e silenzi. Erano tutti già molto vecchi, com’è naturale, perché nel 2004 erano già trascorsi sessant’anni dalla fine della guerra; e molti nel frattempo sono morti, come lo stesso Cid, pochi altri sono ancora vivi. Ma tutti sopravvivono nelle fotografie che De Marco ha scattato dei loro volti, cinquantacinque delle quali ora sono esposte a Trieste fino all’8 dicembre (in una mostra personale intitolata Partigiani di un’altra Europa), nelle sale al piano terra di Palazzo Gopcevich, a due passi da piazza Unità. E pare davvero una rappresentazione potentissima della Storia come comunione di destini individuali, come coralità: accostati così come sono uno di fianco all’altro, in grande formato (ogni foto misura 110 x 130 cm., salvo una ancora più grande), questi cinquantacinque volti in bianco e nero sembrano appunto un coro di voci mute, ma solo nel senso che a rimanere muto è lo spettatore che li veda per la prima volta. Una meraviglia poetica.

La realtà è che i volti di De Marco ci parlano, ci interrogano, ci scuotono. Come giustamente ha notato Gian Paolo Gri in uno dei testi che corredano il catalogo (nel quale compaiono anche testi dello stesso De Marco, di De Luca, di Quintavalle, di De Luna, di Manea, di Cappello e di Cicala), non sono volti neorealisti, ma iperrealisti: nessuna nostalgia, in altre parole, nessuna volontà commiserativa o commemorativa. Non sono volti che guardano verso il passato, bensì verso il futuro, ma sono iperrealisti anche perché escono quasi fisicamente dalle cornici che li contengono, quasi galleggiando nell’aria sugli sfondi bianchi, neri e grigi. Lontani, perché fissati in una trascendenza che li rende eterni, ma immanenti al tempo stesso.

Il nostro volto, scriveva Borges in un suo racconto, è la somma di tutti i volti che incontriamo vivendo; e così anche la Storia, se fosse possibile raffigurarla, avrebbe le sembianze di tutti coloro che hanno contribuito a costruirla. Qui non si tratta di domandarci se e quanto il contributo della lotta partigiana, in Italia o in altri Paesi, sia stato necessario o superfluo. È una discussione abusata e sterile. Quel che è certo è che la lotta partigiana, ovunque, aveva consentito di recuperare dignità altrimenti smarrite; ed è questa dignità che leggiamo oggi sui volti di De Marco, nei loro occhi acquosi ma custodi della «consapevolezza di aver scelto giusto», di un «bisogno di verità e libertà». È la medesima dignità che leggiamo anche in altre foto del percorso di De Marco, quali ad esempio quelle dei contadini messicani o dei Sem Terra brasiliani.

Certo il presente che stiamo attraversando ha mantenuto solo in parte le promesse e le aspettative per la realizzazione delle quali quegli uomini e quelle donne avevano combattuto, mettendo a repentaglio le loro stesse vite; e da questo punto di vista i loro volti disegnano non tanto la Storia quale è, ma quale avrebbe potuto essere. E tuttavia non esprimono un rimprovero; piuttosto, ci inducono a proseguire la loro opera. Ecco perché, oltre alla dignità, questi volti hanno inscritta su di sé una grande forza; ed ecco perché guardano verso il futuro. La dimensione esistenziale di cui dovremmo essere capaci, diceva Camus, è la dimensione della rivolta, che significa saper opporre dei no e rinunciare ai propri egoismi, quando bisogna, in nome di una solidarietà elevata a pratica quotidiana. I partigiani di De Marco erano e sono uomini e donne in rivolta esattamente in questo senso; e continuano a tracciare una via, che ci invitano a seguire.