L’innovazione non è il brevetto. Su questo, dai ricercatori agli imprenditori, sono tutti d’accordo. Non rimane che spiegarlo al governo, che invece anche su questo terreno procede piuttosto per slogan e semplificazioni.
L’occasione per mandare un messaggio in questa direzione è venuta da un convegno intitolato «Brevetto o non brevetto. Questo è il problema?», organizzato dalla Federazione dei Lavoratori della Conoscenza (il sindacato di scuola, università e ricerca della Cgil) presso la sede centrale del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Non deve stupire che di come appropriarsi e commercializzare i risultati della ricerca (a questo serve brevettare un’invenzione) si discuta anche tra i ricercatori pubblici: negli anni recenti, i governi di ogni colore hanno sollecitato con ogni mezzo università ed enti di ricerca a rendere appetibile sul mercato la produzione dei propri laboratori.

Ma che un brevetto sia di per sé garanzia di profitto è tutto da dimostrare. Lo testimonia la scarsa fortuna del decreto legge denominato «Investment Compact», adottato a fine gennaio dal governo Renzi. Oltre a ridefinire lo statuto delle banche popolari, il decreto conteneva una norma che affidava la commercializzazione di tutti i brevetti pubblici all’Istituto Italiano di Tecnologie (Iit) di Genova. Dopo una gragnuola di comunicati allarmati, per ribadire il concetto al convegno sono intervenuti sia il presidente del Cnr Luigi Nicolais che il direttore scientifico dell’Iit Roberto Cingolani, entrambi contrarissimi al decreto. Ma se la posizione del Cnr è comprensibile, in quanto esso rischia di vedersi alienata la gestione di conoscenze sviluppate dai propri ricercatori, più significativa è l’opposizione dell’Iit, che di gestire invenzioni assegnate per decreto non ha alcuna intenzione.
La filiera che trasforma un’intuizione di laboratorio in un prodotto commerciale è lunga e il brevetto è solo una delle tappe. Senza la competenza dei ricercatori che lo hanno sviluppato e di investitori che ne seguano da vicino la fase di start up imprenditoriale, un brevetto si riduce a ben poca cosa e all’Iit non saprebbero che farne.

Almeno a parole, Matteo Renzi ha preso atto della mala parata, come nel caso delle partite Iva, e nelle scorse settimane ha promesso di abrogare la norma. Mancano ancora atti ufficiali, però, e l’andatura ondivaga seguita finora dal governo suggerisce la massima vigilanza. L’innovazione tecnologica, in un paese che ha pur sempre la seconda manifattura d’Europa (lo ha ricordato Andrea Bairati, responsabile Education & Innovation della Confindustria, nonostante in otto anni sia venuto meno un quarto della produzione industriale italiana), è un tema complesso. La parlantina esibita dal premier al Politecnico di Torino per salutare i nuovi investimenti della General Motors in Italia non può nascondere l’assenza di una politica industriale degna di questo nome.

«Valorizzare la ricerca», dunque, non significa solo spostare i brevetti da un ufficio ad un altro. Anzi, in molti casi il brevetto non è proprio necessario. Molte innovazioni di grande impatto, basti pensare al World Wide Web o a strumenti diagnostici come la Pet comunemente usata negli ospedali, sono nati in laboratori dedicati alla ricerca di base come il Cern di Ginevra, dove lavora la vicepresidente dell’Istituto Nazionale per la Fisica Nucleare Speranza Falciano, intervenuta al dibattito. Può addirittura accadere che i brevetti rappresentino un ostacolo piuttosto che un incentivo alla creatività.
L’economista del Cnr Daniele Archibugi ha ricordato che, tranne in alcuni settori come quello farmaceutico, la proprietà intellettuale non gioca un ruolo decisivo nella competizione sui mercati «high tech». L’esplosione del numero dei brevetti negli Stati Uniti, dove le attività di «trasferimento tecnologico» dalla ricerca pubblica all’industria sono iniziate con qualche decennio di anticipo, non è corrisposta a un analogo aumento degli investimenti in ricerca e sviluppo. Per di più, sta comportando diverse «esternalità negative».

Ad esempio, molte competenze scientifiche sono oggi deviate verso il settore delle consulenze legali, decisamente più redditizio grazie al business delle cause brevettuali. In aziende leader come Apple e Google le spese per le controversie sulla proprietà intellettuale sono ormai paragonabili agli investimenti in ricerca e sviluppo. È una deriva contro cui lo stesso Barack Obama ha preso posizione, modificando per ben due volte nel corso della sua amministrazione la legge Usa sui brevetti.

Pretendere di incentivare l’innovazione partendo dal brevetto, che intervengono solo a valle dell’invenzione, dunque, significa «muovere un cane dalla coda» (la metafora è di Archibugi). Ma il cane non corre perché è legato, e il vero guinzaglio si chiama «austerity».