Come rileggere Marx dopo la crisi economica del nostro presente e la rivoluzione passiva, che ha distorto in forma neoliberista le istanze di emancipazione degli anni Sessanta del Novecento?
Questa è la domanda di partenza di Roberto Finelli nel libro Un parricidio compiuto. Il confronto finale di Marx con Hegel (Jaca Book, pp.404. euro 35). Di contro ai più tradizionali marxismi della contraddizione e dell’alienazione, l’autore pone al centro dell’opera del filosofo di Treviri un crescente affermarsi dell’astrazione in ogni piega del reale. Il marxismo della contraddizione si muoveva secondo la dialettica del rovesciamento: esso sottolineava il contrasto tra forze produttive e rapporti di produzione, che conduce al crollo dell’ordine capitalistico. È la stessa forza lavoro ad essere il motore del rovesciamento. Nello sviluppo del capitale, perde i suoi caratteri qualitativi, differenzianti; ma proprio per questo – superando ogni limite individualistico – diviene soggetto collettivo all’altezza dei mezzi di produzione creati dal capitale.

Dal «marxismo della contraddizione» Finelli prende congedo. Il fenomeno originante del capitale è l’astrazione, che svuota ogni essere umano asservito come forza-lavoro; essa non crea una virtualità rivoluzionaria ma tende a collocarlo in una povertà assoluta, di totale desolazione: «soggettività povera, fino alla vuotezza di sé». L’enfasi del capitalismo attuale sull’individuo «imprenditore di se stesso», il passaggio dal lavoro corporeo al lavoro immateriale, non mutano la desolazione del lavoratore dominato: le nuove ideologie del capitale esaltano un’apparenza sociale di liberazione, che appartiene alla rivoluzione passiva, del capitalismo di fine ’900. Finelli la definisce un simulacro, compiendo un sottile détournement su un termine amato dalla filosofia postmoderna: il simulacro non è alleggerimento dell’essere, ma sintomo sociale del capitale. Alla polarità del marxismo della contraddizione (forze produttive-rapporti di produzione), Finelli sostituisce quella caratteristica dell’astrazione: svuotamento e dissimulazione. Come sosteneva Debord: quanto più il concreto si svuota di qualità reale, tanto più splendente la sua immagine. Finelli estende questa concezione alla persona viva del lavoratore: quanto più la sua personalità è priva di individuazione, tanto più splende la sua apparenza di «libero imprenditore di se stesso»: la quale appartiene alle maschere di capitale, come le definiva Marx.

Il movimento del capitale è caratterizzato dal ciclo del presupposto-posto, che Marx riprende da Hegel. L’astrazione del capitale, nel suo inizio, è un in-sé non evidente. Esso cresce fino a palesarsi come presupposto reale di tutto il modo di produzione. Tuttavia, il suo nucleo più profondo – il plusvalore di capitale estratto dallo sfruttamento del lavoro – resta non visibile: è il non-detto di ogni discorso, il moderno «mistero sacro» della sovranità, lo spirito immanente-invisibile del denaro. Nella parte storica del I libro del Capitale, Marx mostra come il presupposto si affermi in una serie di atti contingenti di violenza e invenzione tecnica. Solo alla fine riconosciamo una legge di sviluppo nel passato, dal punto di vista del principio che ha prevalso.

Solo oggi l’astrazione di cui parlava Marx è interamente reale. Ma vale anche la considerazione opposta: se la Comune avesse vinto, se la Rivoluzione spartachista non avesse commesso errori fatali, etc. forse oggi il punto focale da cui leggiamo retrospettivamente la storia sarebbe differente. Perciò Marx sottopone il ciclo idealista di Hegel alla prova contingente delle lotte che, a ogni biforcazione, col loro esito, hanno portato al risultato attuale. Il presupposto del capitale poteva essere interrotto nel suo porsi, e può ancora esserlo, determinando una diversa leggibilità della storia. La crisi è il momento in cui il presupposto rivela un possibile stato di indeterminazione.

Se l’astrazione si afferma in modo totale, se la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione non può essere considerata legge della storia, è ancora possibile una fuoruscita dal capitale? Per Finelli, è innegabile una contraddizione di genere diverso: essa intercorre tra la superficie-simulacro della società – superfetazione solo immaginaria della libertà – e la disuguaglianza che si afferma nel reale. Qui si apre una lacerazione che spinge alla rivolta l’individuo che ne è attraversato. Tale contraddizione ricorda quella del torto, secondo Rancière: fra l’universalismo proclamato dei diritti e la dissimetria praticata della padronanza. Non c’è passaggio necessario dalla soggettività plasmata dal capitale a quella emancipata: l’uomo in rivolta deve fronteggiare l’assoluta povertà della disperazione prodotta dai simulacri del capitale. La contraddizione non è solo economica, ma politica, psichica e morale. L’individuazione è incompatibile col mito di un’origine felice della vita, di un «genere umano» destinato al dominio della natura, ma anche con le sue forme ricodificate dal capitale.

Queste vanno rovesciate a loro volta: non è che l’«imprenditore di se stesso» contenga in nuce l’emancipazione del desiderio; ma un’istanza di liberazione radicale degli anni Sessanta del ’900 è ricodificata e dominata nella figura dell’imprenditore di se stesso. Il capitale non fornisce segnavia oltre il suo orizzonte: il desiderio che lo oltrepassa nasce dalle sue crisi, non dal suo sviluppo, e il suo sforzo incessante è di riplasmarlo in forma sfigurata e dominabile. Non c’è maturazione del socialismo all’interno del capitale, ma dissociazione costitutiva tra l’apparenza della libertà e il reale dello sfruttamento.

L’individuazione costituisce il piano verticale della soggettività, complementare a quello orizzontale dello spazio sociale. Per indagare quel primo momento Finelli ritiene indispensabile la psicoanalisi e rielabora la teoria di A. Honneth: il riconoscimento dell’altro fuori di sé non può andare disgiunto da quello dell’alterità entro di sé. L’affinamento del proprio «corpo emozionale» in ordine simbolico comporta sia la decifrazione dell’alterità entro di sé, sia il riconoscimento da un «altro» esterno. Solo quest’ultimo «protegge» dall’inquietudine pulsionale, che può aggredire il soggetto (Finelli ha ben presente l’ambivalenza della pulsione di morte freudiana).
Ciò rende necessario affiancare alla critica dell’economia politica una critica dell’economia libidica. La relazione tra la verticalità della psiche e l’orizzontalità dello spazio sociale è per Finelli un «trascendentale… dell’essere umano», e del giudizio politico. A cui si giunge in una lenta dialettica di persuasione e comunicazione della differenza: il desiderio dell’altro e il mio si riconoscono e anche si limitano, in regole del gioco condivise. Di fronte all’illimitato incremento quantitativo che caratterizza l’astrazione capitalista e la religione del denaro, la posizione di limiti – ecologici e morali – è necessaria: tuttavia, l’autorità del limite non può essere imposta da un comando dall’alto. È, la sua, un’autorità senza padri, senza obbedienza e identificazione, elaborata dal «pensiero ampliato» dei molti (Arendt), entro un essere in comune. Questa fraternità è il presupposto grazie cui la violenza può non risolversi in guerra, essere contenuta nelle forme linguistiche del conflitto. Trovare nuove istituzioni che favoriscano questo spazio pubblico è il compito della politica del presente, oltre il disfacimento dei partiti e delle democrazie parlamentari e contro la rivoluzione passiva del populismo.