Ogni cosa opera ingiustizia nei confronti delle altre cose, scriveva Anassimandro. In questo nostro tempo in cui l’individualismo è il valore fondante delle forme di vita, degli spazi, delle relazioni amorose e delle passioni ben pochi prestano attenzione alla prepotenza dell’uomo sull’uomo e ancor meno all’oscenità della sperimentazione animale. Ad impedirlo é lo strapotere dell’antropotecnica e così il grande freddo ci governa precipitando nel quotidiano di ciascuno di noi. Un cuore di tenebra che il claustrofobico microuniverso costruito dalla scrittrice padovana Barbara Codogno nel suo ultimo lavoro Il dio dei topi, Cleup editrice, rappresenta con chirurgica efficacia. In un dipartimento universitario di ricerca, tra la ricercatrice Bianca e la topolina 315A, ovvero tra osservante ed osservata, non vi è differenza alcuna. La prima vive nel sotterraneo di un laboratorio, la seconda in un condominio trasparente appositamente creato per accogliere le cavie di una sperimentazione il cui obiettivo è trovare un nuovo ansiolitico richiesto da una importante azienda farmaceutica. Nei comportamenti delle cavie l’aggressività è indotta dagli sperimentatori così come nei comportamenti degli umani prevale un egoismo che non risparmia nemmeno chi apparentemente si dimostra più mite. Immaginate dunque un istituto di ricerca dove tutti, dal responsabile di dipartimento all’ultima ricercatrice arrivata in cerca di gloria o lavoro, si sbranano a vicenda per conquistare il potere. Bianca é l’unico personaggio che non cerca ossessivamente di farsi posto attraverso una benevola e incestuosa dipendenza dal capo, tutti gli altri costituiscono una umanità al guinzaglio in uno scenario come minimo inquietante. Se nei confronti degli animali non c’è alcuna pietà, la stessa violenza viene riservata agli uomini, mutatis mutandis, e nel romanzo si scatena una situazione senza scampo dove le persone, anche le più insospettabili perché più amichevoli, fanno a gara per conquistarsi un posto al sole ovvero la firma di una pubblicazione o la partecipazione ad un convegno. Insomma un cannibalismo che sul terreno lascia solo cenere e vittime. Ognuno di loro è come se tenesse al guinzaglio un altro, certo di averlo in sua balia. Il capo dipartimento può fare qualsiasi cosa nei confronti dei suoi subalterni senza temere alcuna resistenza, ne alcuna vendetta o ritorsione da parte delle vittime. Il suo è prima di tutto un controllo violento e ravvicinato del corpo. Prende in ostaggio quello della moglie, ed in un continuum quello delle ricercatrici. Nel libro della Codogno ad imporsi sono i soggetti che dispongono della forza in uno scenario fosco e disincantato che nel finale è una denuncia della oscenità della società in cui viviamo dove non esiste più un rifugio dove si possa trovare riparo in cerca di giustizia e umanità. Uomini ed animali sottoposti ad uno stesso destino, senza speranza. La scrittura della Codogno é sferzante come i fatti che racconta, come una alba fredda e grigia nel mare immenso della solitudine umana. Non si cerchino illusioni o vie d’uscita, Barbara non le fornisce. Mentre qualcuno muore, gli altri non se ne curano, indifferenti come si trattasse della morte di un topo.