Davanti a disastri ambientali di natura industriale come possono essere quelli accaduti a Seveso, Chernobyl, Fukushima, tanto per citare alcuni dei più famosi, solitamente ci si limita a considerare danni economici – perdite finanziarie o deprezzamento dei terreni – e danni causati da malattie e patologie varie. Oltre a questi, che richiedono ovviamente massima attenzione, vi è l’assoluta necessità di considerare anche i danni psicosociali di persone costrette a vivere in ambienti contaminati e tossici, come: senso di alienazione, stress cronico e altre forme di disagio psicologico e relazionale in famiglia e nella comunità». A sostenerlo con forza è Adriano Zamperini, professore ordinario di psicologia sociale presso l’Università degli Studi di Padova, che ha messo questo concetto nero su bianco nel suo ultimo libro Violenza invisibile. Anatomia dei disastri ambientali (Piccola Biblioteca Einaudi, euro 20).

Zamperini, ci può fare un esempio di danni psicosociali?
Guardiamo alla contaminazione da Pfas, sostanze tossiche che si accumulano nell’organismo, e che possono essere trasmesse dalla madre al nascituro durante la gravidanza: la madre se ne libera e le trasmette al figlio. Sostanze tossiche che non si sa bene se, come e quando potranno diventare malattie conclamate. Facile che questa madre possa sviluppare inizialmente sensi di colpa, poi angoscia e insicurezza rispetto a una crescita sana del bambino. Oppure pensiamo a una madre che vive con la sua famiglia nel quartiere di Tamburi a Taranto. Dove c’è l’Ilva. In balia di una polvere tossica che copre ogni cosa e penetra ovunque. Una madre continuamente preoccupata della salute della figlia e perciò preda di un’angoscia che avvelena la mente. Queste due madri sono accomunate da profonde preoccupazioni che intaccano la qualità di vita. Nel diritto alla salute c’è anche il diritto alla tranquillità. In questi, come in tanti altri casi, violato da croniche e stressanti preoccupazioni. Danni psicosociali di cui bisogna prendersi cura.

Lei ha affermato che la lotta per la ricerca della giustizia di quanto accaduto in un disastro ambientale può essere a sua volta generatrice di sofferenza psicologica, sino ad arrivare a forme individuali e collettive di apatia e cioè all’indifferenza degli sconfitti. Ci può spiegare meglio?
Nei disastri ambientali causati da mano umana, la ricerca di giustizia è un percorso accidentato e faticoso. E anche quando si raggiunge il traguardo di un processo, non è certo finita. Generalmente, le vittime investono molte energie, materiali e psicologiche, per ottenere pubblico riconoscimento e compensazione. Accettano la fatica di denudarsi emotivamente durante le testimonianze, si sottopongono a perizie invasive, sono investite delle aspre controversie tra accusa e difesa, per poi rendersi conto che il sistema giudiziario presenta limiti intrinseci. La difficoltà di dimostrare i danni subiti e il decorso del tempo remano contro. E poi l’incubo della prescrizione: una vera e propria pugnalata. Non stupisce allora che questi processi comportino un grande travaglio psicologico e non è infrequente riscontrare nelle vittime spossatezza emotiva, esaurimento e persino rassegnazione di fronte all’idea che le aziende riescono a violare le regole senza particolari conseguenze.

Ma c’è anche chi si organizza e combatte una sua battaglia, come per esempio quella delle Mamme No Pfas in Veneto. Quale sforzo occorre fare per passare dalla rassegnazione all’azione?
Nel libro mi soffermo molto sulla capacità delle comunità di evitare di restare confinate nel ruolo di vittime, più o meno rassegnate. E diventare invece agenti di cambiamento. Il primo passo è la condivisione di un’ingiustizia: condividere con altri quello che sta accadendo permette di superare l’impotenza che spesso colpisce i singoli, così da sviluppare un’indignazione morale. Secondariamente, la nascita di un gruppo – anche attraverso risorse di rete già esistenti – conferisce un senso di identità, appartenenza e sostegno, come per esempio le Mamme NoPfas da lei menzionate. È poi il senso di efficacia collettiva che permette di trasformare la propria esperienza in azioni di rivendicazione e di conoscenza.

Ha più volte sostenuto che lo scopo ultimo di questo suo libro è riuscire a orientare i sensi dei lettori nella direzione dell’invisibile per pervenire a una visione della violenza ambientale sugli esseri umani. Ci faccia un esempio per capire meglio.
Nel libro estendo l’effetto spettatore – ossia l’indifferenza e l’inerzia dei passanti davanti al bisogno altrui – ai disastri ambientali, sottolineando l’importanza della percezione sociale. Uso le pietre d’inciampo che vogliono far incespicare il passante distratto per riportarlo all’attenzione verso il dramma della Shoah per segnalare come anche nell’ambito dei disastri ambientali serve catturare attenzione. Di fronte a disastri ambientali che lavorano sottotraccia, impercettibili ai sensi dei comuni cittadini, diventa fondamentale la loro elaborazione comunicativa. Per questo ritengo che il mio libro, come altre iniziative, sia una pubblic/azione, un’azione pubblica che punta a stimolare l’attenzione collettiva con storie di sofferenza e ingiustizia.

In tutto questo la politica che ruolo gioca?
La risposta sarebbe troppo lunga per essere contenuta in poche righe. Mi limito a dire che i politici hanno la responsabilità di garantire e tutelare il diritto alla salute delle loro concittadine e concittadini. Quindi, il coinvolgimento è evidente. E allora, sarebbe doveroso e auspicabile che la politica non fosse sempre e solamente chiamata a rendere conto della mancata o deficitaria gestione di questi problemi, ma, in base alla mia esperienza di studioso, dovrebbe investire maggiori risorse nei sistemi di regolamentazione e di controllo delle sostanze che circolano nel nostro ambiente di vita, prestando autentica attenzione alla ricerca scientifica.

Per concludere, che concetto lasciamo ai lettori?
Visto che i disastri ambientali causano conseguenze devastanti, in molti casi ingestibili nell’immediato oppure affrontabili solo con l’impiego di ingenti e costose risorse, spezzo una lancia a favore del principio di precauzione. Bonificare i siti inquinati è difficile, sanzionare è spesso troppo poco e troppo tardi di fronte ai danni prodottisi. Allora, vorrei dire ai lettori che non possiamo più limitarci a stare a valle dei disastri ambientali, bisogna risalire a monte. Serve cautela e responsabilità, per sé stessi e per le generazioni a venire. Inoltre, per me, psicologo sociale, ragionare in termini di precauzione comporta il dipendere meno dal giudizio di esperti analisti del rischio e più dalla deliberazione democratica su come gestire le varie minacce ambientali. Perché, sia detto chiaramente, la gestione dei pericoli ambientali non è esaurita da competenze tecniche, invece investe in pieno il tipo di società che siamo e che vorremmo essere.