Nella sua evoluzione da cacciatrice del poverissimo, minerario, dodicesimo distretto di Panem, a quella di Giovanna d’Arco della rivoluzione contro il sadico presidente Snow, Katniss Everdeen è sempre rimasta fedele a se stessa: indocile, riflessiva e malinconica, insofferente agli ordini, scettica nei confronti di qualsiasi potere (qualità per cui la ammirano anche Occupy Wall Street e il Tea Party), ferocemente protettiva di quelli che ama e dei valori in cui crede. Interpretata con dolce stoicismo da Jennifer Lawrence (al primo film una stella del Sundance, oggi un’attrice tra le più pagate e richieste di Hollywood), Katniss è così anche nel quarto e ultimo episodio della franchise tratta dai best seller di Susan Collins, The Hunger Games –Mockingjay Part 2.

 

 

 

 

E, più ancora della brillante visione libertario distopica di Collins, della sua critica alla guerra e ai media che la rappresentano, sono quelle qualità della sua eroina, il suo smarcarsi continuo dagli stereotipi- del femminile, del «genere» , dei modi della narrazione avventurosa, politica o sentimentale – il cuore delle serie di film, intenzionalmente affidati a due registi abbastanza piatti (Gary Ross il primo e poi l’austriaco Francis Lawrence), ma a un bravo set designer, a una costumista creativa, e a degli attori raffinati e intelligenti (Donald Sutherland, Julianne Moore, Philip Seymour Hoffman, Jena Malone, Stanley Tucci, Woody Harrelson…). Non è un caso che, trascendendo la pagina e anche lo schermo, Katniss sia diventata una figura così iconica del nostro tempo, che – oltre ad aver ispirato analoghe ma meno belle franchise come Divergent – ha catturato l’attenzione di filosofi e sociologi. E in questo senso è un peccato che non la vedremo più.

 

 

Tra i libri della trilogia, Mockingjay è forse quello meno appassionante, appesantito anche da una visione politica un po’ schematica che, dopo averci presentato gli orrori della tirannia del capitalismo, evoca un potere altrettanto spietato e autocratico, che nasce dalla rivoluzione degli oppressi, ed è incarnato da comandante/presidente Alma Coin (Julianne Moore simpaticamente glaciale). Trarre due film invece di uno da questo volume quasi interamente dedicato alla guerra, ambientato in gran parte in un mondo sotterraneo e monocromatico, senza il potenziale visivo offerto dai giochi di morte dei primi due non è stata una grande idea: alla dirittura finale si arriva con un po’ di fatica.

24VisHungerGames

 

Nelle prime immagini, troviamo Katniss sofferente, il collo coperto di lividi, le parole che escono a fatica dalle labbra. Negli occhi, lo sgomento di aver visto una persona amata cercare di ucciderla. L’artista e panettiere Peeta ha infatti subito un lavaggio del cervello ed è stato programmato per farla fuori. Vuole farla fuori anche Alma, ma non prima di averla usata come testimonial per la campagna promozionale delle ultime fasi della guerra verso la conquista di Panem e del controllo del governo. Prevedibilmente, Katniss non ha nessuna intenzione di farsi usare – il suo obbiettivo è invece quello di arrivare alla capitale e uccidere Snow. Accompagnata da un team di fedelissimi e dall’immancabile telecamera che immortala le sue gesta, si addentra in un paesaggio che alterna macerie e grigie architetture monumentali da Germania nazista. Snow (Sutherland, sublime, in tutti i film), asserragliato nel suo palazzo, sputa sangue ma sghignazza pensando di poter ancora vincere.

 

 

Concentrato quasi esclusivamente sull’azione di arrivare al palazzo che fa molto videogame, Mockingjay Part 2 non offre gli spunti di pathos e di sincretismo con il presente (Gaza, Ferguson, i bombardamenti in Medio Oriente…) che avevano dato una certa grandiosità dark a Part 1. Katniss, e Collins, odiano la guerra e la violenza, e il film riflette il loro sguardo fino all’ultimo, ma con meno dettaglio, invenzione, di quello che si vorrebbe. Anche se ci sono momenti molto belli, come l’apparizione di una filiforme donna tigre, e la confrontation finale con Snow e Alma Coin. Mancato a metà delle riprese e quindi tagliato da parecchie scene e inserito digitalmente in altre, Philip Seymour Hoffman nei panni di Plutarch, fa malinconicamente capolino qua e là.

 

 

Fedele a se stessa fino all’ultimo, la ragazza di fuoco opta per un finale non glam, lontano dalla capitale liberata e festeggiante. Le ultime immagini di qualche anno dopo- vorrebbero essere idilliache. Dolce/amaro é il goodbye.