È un triste privilegio dell’età quello di vedere morire chi si è scelto come uno dei propri maestri: dico «scelto» e non «trovato». Io mi ero «trovato» Strehler, essendo nato e cresciuto a Milano, nel 1961. E dal Giardino dei ciliegi, con Valentina Cortese, oscillante per ore tra il pianto e il riso, e Renzo Ricci-Firs e le scene bianche e astratte di Damiani, con le foglie finte e colorate che grondavano sul pubblico, ero rimasto stregato: da allora, dal 1973, il manifesto con la folla dei personaggi del terzo atto sta appeso nella mia stanza, per decenni una di quelle foglie è stata nel mio portamonete; e l’ammirazione non è diminuita. Ma Luca Ronconi è stato un’altra cosa: è stato un punto di riferimento che ho consapevolmente scelto.
Faccio parte di quegli adolescenti, di classi diverse e di regioni diverse, che nel 1974 erano rimasti interdetti per cinque domeniche nel vedere alla televisione di Stato, l’unica che c’era allora, in prima serata l’Orlando Furioso, trasmesso in bianco e nero: la reinvenzione filmata dello spettacolo del 1968, calato – grazie alla fantasia di Pier Luigi Pizzi – in una ridda di località, tra cui Santa Maria in Cosmedin a Roma, elevata a corte di Carlo Magno, e le sale farnesiane di Caprarola. Tra gli affreschi di Taddeo Zuccari Angelica era inseguita da paladini su cavalli giocattolo, mentre i versi di Ariosto erano risistemati da Edoardo Sanguineti. E l’ippogrifo volteggiava tra le carte geografiche dipinte dal misterioso Giovanni Antonio da Varese. Non c’era alcuna congruenza tra la civiltà delle corti padane del primo Cinquecento, da cui era uscito il prodigio del Furioso, e il fasto rinserrato e un po’ greve della reggia laziale: eppure il risultato era magico. Gli interpreti erano una specie di nazionale di calcio dei giovani attori italiani, ma non mancava Peter Chatel tra un Daniel Schmid e un Fassbinder, di cui non supponevo allora neanche l’esistenza. E sì che Peter Chatel era il protagonista, proprio nel 1974, del Diritto del più forte. Ogni puntata terminava con dei titoli di coda in cui si mostravano i risvolti tecnici, pratici della messinscena: come faceva a volare l’ippogrifo, come correvano i cavalli sui binari, come incedeva l’orca… Si spiegavano cioè le regole dell’illusione; si forniva la scatola di montaggio: quanto ho riflettuto su quelle sigle di chiusura. La mattina del lunedì, a scuola, dell’Orlando si parlava con i compagni: chi infastidito e chi stregato da quell’esperienza fin lì senza paragone alcuno, così distante dalla routine narrativa dei romanzi sceneggiati, così aperta a mille anacronistiche prospettive.
Facile da spiegare perciò il senso di orgoglio provato, nel 1978, nel vedere, a Prato, la Torre e il Calderón e le Baccanti, in quel Laboratorio di progettazione teatrale dove Ronconi aveva messo al suo centro il tema della comunicazione: detto così potrebbe sembrare estremamente astratto. E invece si trattava di spettacoli o frammenti di spettacoli che hanno posto su altre basi il rapporto tra artisti e pubblico. Non si trattava più di rappresentare dei testi: non contava che ci fosse tutto, dall’inizio alla fine; bastava un’attrice sola, Marisa Fabbri, in uno spazio modulato incessantemente da schiere di macchinisti invisibili, a ridare vita al rito perduto delle Baccanti, tra i muri di un ex orfanotrofio, il Magnolfi. E la tragedia rinasceva, moderna e antica insieme, mentre la mia fantasia di liceale si interrogava sui Greci e l’irrazionale di Dodds. Tutto era senza nostalgie, senza sfumati, senza lirismi, senza trasalimenti: senza cioè quegli ingredienti che avevo imparato ad apprezzare nelle regie di Strehler. Tutto, sottoposto a un semplice controllo della ragione, era però ugualmente sorvegliato da un’esigenza insopprimibile di stile, la stessa che permetteva a Gae Aulenti di ricostruire, in misure quasi naturali, soffitto e stucchi della Residenz di Würzburg dentro una manifattura pratese dismessa, il futuro Fabbricone, per ambientare – sotto il soffitto di Tiepolo, rifatto grandeur nature – la parabola del principe Sigismondo, che era Franco Branciaroli, non ancora diventato uno degli eroi di Testori. Le allegorie settecentesche si rifrangevano su un pavimento di specchi che andava in mille pezzi a ogni replica; i costumi erano sontuosi e non mancavano i corpi nudi: quasi a un incrocio tra il Ludwig di Visconti e il Salò di Pasolini; erano entrambi dietro l’angolo. E c’era poi, nel Metastasio, osservabile solo dai palchi, perché gli attori si muovevano nella platea trasformata in uno scenario smisurato il monumentale Calderón di Pasolini: e, in mezzo ai sogni e in due serate, rinascevano Las Meninas di Velázquez ricostruite tridimensionalmente, dove Gabriella Zamparini e Miriam Acevedo, una «diva de Cuba», correvano senza sosta. Erano emozioni da riportare a Milano con lo stupore, indimenticato, di chi aveva avuto la fortuna di assistere a qualcosa di molto diverso dalla routine degli abbonamenti: a ogni recita delle Baccanti si era ammessi infatti solo in ventiquattro. Ma non erano i singoli risultati ad avermi deciso a quella predilezione: avevo capito che a Ronconi interessava qualcosa di più profondo, al di là dell’esito del lavoro o della prestazione di un attore, del «bello» o «brutto» spettacolo.
Da quel momento ho cercato di vedere, nei limiti del possibile, quante più opere lui facesse: di prosa o di lirica o gli allestimenti delle mostre; e sono stati veramente tanti. Anche perché l’organizzazione del lavoro di Ronconi era radicalmente diversa rispetto a quella messa in atto nel Piccolo Teatro di Strehler: dove uno spettacolo era ripreso per anni, praticamente imperdibile cioè, anche perché sottoposto a una continua manutenzione, trasformato in un’occasione di crescita civile, partecipato insomma dalla città… E tante altre parole «umane», che in quel momento cominciavano ad andarmi strette, salvo recuperarne, ad anni di distanza, il senso più profondo e giusto. In quel momento Ronconi, non ancora cinquantenne ma già carico di passato, mi sembrava molto più avanti, in grado di dialogare – senza giovanilismi e senza plagi – con le esperienze della più recente ricerca teatrale, in bilico con le arti figurative, cioè con quanto più a me stava a cuore: il Carrozzone in testa. Certo agisce su quell’immagine di Ronconi dell’ultimo tratto degli anni Settanta il battesimo di Franco Quadri (il bel volume di Einaudi era del 1973), ma sarebbe profondamente ingiusto e limitante rileggere alla luce di Quadri, e soprattutto di quello che sarebbe diventato Quadri, il senso della ricerca del più grande regista italiano dell’ultimo scorcio del Novecento.
La mia passione per le Baccanti era stata tale da avere cercato Marisa Fabbri per chiederle di venire a parlare del lavoro compiuto su Euripide nel liceo dove studiavo: e «Marisa, the tragic», come l’avrebbe chiamata Maggie Smith, venne al Parini un pomeriggio, a parlare fuori orario, in un collettivo studentesco, a un gruppo di ragazzi che erano alle prese con l’esame di maturità e con la voglia di cambiare il mondo; l’attrice comunista, e tale sarebbe rimasta fino alla fine, ci spiegava cosa significava Lacan, come Ronconi, dopo Strehler, le avesse cambiato letteralmente la vita: era diventata quasi un apostolo di quella religione e ci insegnava a scomporre i versi del prologo di quella tragedia per capirne, tra un trimetro e l’altro, i sensi reconditi, persino nelle pause dei dittonghi. Non si lasciava scappare però che quello spettacolo, richiesto da tutto il mondo e già destinato a finire nei manuali di storia del teatro, non aveva lasciato, per volontà del suo autore, i muri del Magnolfi: quindi ben pochi l’avevano visto sul serio (nonostante, come diceva lei tanti anni dopo, l’«Europa la si fosse inchinata»). Cominciavo a capire cosa significava la «politica del regista».
L’impresa di Prato finiva malamente, tra polemiche a non finire sui costi e un sostegno solo parziale del Partito Comunista, per i cui Festival dell’Unità Ronconi aveva da poco messo in scena (ma io non l’avevo vista) l’Utopia, un montaggio di commedie di Aristofane, dove faceva la sua comparsa sulla scena un aeroplanino rosa, un Piper, su cui fantasticavo ammirato. Scorrevo le liste degli spettacoli che avevo perso e mi mangiavo le mani, perché desideravo essere più vecchio. Avevo mancato persino a Milano, al Lirico, l’Anitra selvatica di Ibsen, dove Ronconi aveva iniziato la sua collaborazione con Gae Aulenti, con scene importanti che riflettevano sui procedimenti della fotografia, una relativa novità ai tempi di Ibsen e un sistema con cui interrogare differentemente quel vecchio testo. E mi mancavano anche – per eccesso del dovere da primo della classe, che non voleva perdere una giornata di studio – i due Schnitzler messi in scena a Genova: il Pappagallo verde e la Contessina Mizzi, uno tutto bianco e l’altro con un buio che fece epoca, forato da centinaia di faretti. Io non c’ero andato, ma l’aveva visto un mio amico di allora, un ragazzo austriaco, poco più grande di me, che si faceva chiamare Christian Michelides. L’avevo incontrato in un cinema e affascinava tanti a Milano e in giro per l’Europa; non era ancora scoppiata la peste, del resto. Da Genova mi arrivava una cartolina a sua firma con accanto un «Luca»: il primo ingresso di Ronconi, come persona, nella mia esistenza. Christian studiava, da aspirante regista, alla Scuola d’Arte Drammatica in corso Magenta ed era alle prese con il suo saggio di fine anno: una messinscena del Reigen di Schnitzler. Per un capriccio circolare del destino o per un filo di cui non sono capace di scorgere il senso, Ronconi mi diceva, l’ultima volta che ci siamo visti, che l’anno prossimo aveva intenzione di rappresentare proprio il Girotondo.
(1)-Continua